Abstract
Era l’alba del XX secolo. Primavera del 1902. Alessandro Codivilla, che da tre anni aveva assunto la direzione dell’Istituto Rizzoli di Bologna, e aveva già nutrito la neonata ortopedia italiana col suo ingegno e col suo senso pratico, ebbe l’ennesima intuizione. Davanti a lui, in una delle ampie corsie del vecchio monastero adibito a ospedale, si presentò una ragazza dodicenne, la cui frattura al terzo superiore del femore – occorsa otto anni prima – era esitata in una deformità angolare con un accorciamento di ben 9 cm. Le gravi complicazioni causate dall’energica trazione sui tessuti molli, da lui impiegata per simili casi trattati con osteotomia, pesavano ancora sulla sua coscienza; al fine di evitarli, pensò di ricorrere a quello che, allora, venne considerato un artifizio: un “chiodo” piantato nel calcagno per applicarvi la stessa forza risparmiando la cute. Nacque così la “trazione diretta sullo scheletro”, la metodica innovativa che maggiormente contribuì ad allargare la sua fama a livello mondiale.
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