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I confini, per lui, non esistevano. Anche perché quelli geografici della sua patria gli venivano spostati di continuo, tra un avvenimento bellico e l’altro. Nato come figlio dell’Impero asburgico, in una regione storicamente germanica, si era ritrovato ad affrontare le iniziali esperienze da medico-chirurgo in Alto Adige, prima che l’esito della Grande Guerra ne decretasse l’annessione al Regno d’Italia. Poi cittadino dell’Austria, a Vienna capitale, dove la carriera di specialista traumatologo era destinata a procurargli fama internazionale. L’intermezzo della Seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista, l’aveva obbligato a operare sui fronti dell’attuale Repubblica Ceca e della Russia, senza che mai venissero scalfite la sua intransigenza e la sua onestà professionale. Aveva, per così dire, un eletto domicilio nel mondo della scienza; quello senza divisioni, libero e indipendente.
Vicissitudini e ideali di Lorenz Böhler, il primo in Europa a creare un ospedale esclusivamente dedicato ai traumi scheletrici, maestro tra i più istruttivi e longevi del Novecento nella tecnica di trattamento delle fratture. Requisiti che gli hanno fatto guadagnare l’appellativo di “padre della moderna traumatologia”. La sua storia, così variegata e priva di confini – culturali oltre che geografici –, potrebbe essere raccontata in tanti modi e da varie prospettive. Noi la ripercorreremo seguendo soprattutto il filo che lo ha legato alla nostra Penisola, attraverso la sua attività in ospedali dell’Alto Adige agli inizi della sua carriera, i suoi ritorni vacanzieri in quelle ridenti valli, i frequenti incontri di amichevole collaborazione con gli esponenti dell’ortopedia italiana. Alcune immagini, lungo il percorso, saranno fedeli testimoni di un legame che, come vedremo, ha lasciato una chiara traccia di sé.
Alto Adige, amore a prima vista
Lorenz Böhler ha appena 11 anni quando per la prima volta valica da nord il Passo del Brennero, diretto alla scuola-seminario di Bressanone. È il 1896. L’Alto Adige fa parte dell’Impero Austro-Ungarico, e non è ancora oggetto di contesa col Regno d’Italia; anzi, c’è un patto militare di alleanza (“Triplice”, insieme alla Germania) che è garanzia di accordo e di pace. Due soli anni di frequenza in quella scuola, dove la retta è difficile da sostenere per le modeste condizioni economiche della famiglia, papà falegname. Così Lorenz fa ritorno nel Vorarlberg, la regione alpina di cui è originario, situata poco più a nord e a ovest. Qui ha trascorso la sua infanzia, scorrazzando nella fattoria della nonna; qui passa il resto della sua adolescenza, studiando e aiutando i suoi nel lavoro.
Quello di diventare medico-chirurgo è stato il suo sogno da bambino, affascinato da come quel tale dottore di campagna riusciva a improvvisare pratiche terapeutiche a domicilio; sogno poi coltivato con la mania di dissezionare, con sorprendente perizia, piccoli animali morti. La scoperta dell’anatomia come un gioco. Il giorno dell’Epifania del 1896 un suo parente aveva portato con sé un numero della rivista “Das Interessante Blatt”; sfogliandola, il non ancora undicenne Lorenz si era fermato a osservare la foto dello scheletro di una mano, che accompagnava la notizia della recentissima scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Conrad Röntgen (era la famosa mano della moglie del fisico di Wurzburg, con tanto di anello: “Hand mit Ringen”). Aveva ritagliato quella pagina e se l’era portata a scuola per contemplarla!
La facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Vienna è la strada obbligata dei suoi ideali. Per assicurarsi una borsa di studio deve rigare dritto e rispettare il calendario degli esami. Non sono queste le difficoltà che lo spaventano; anzi, trova anche tempo e modo di racimolare qualche spicciolo, sfruttando quella sua abilità di aprire la pancia degli animali: cattura uccelli o scoiattoli, li impaglia e li mette in vendita. Sembra scorrere veloce e indisturbato il tempo verso la meta della laurea. Neanche sei mesi di addestramento militare a Bregenz, capoluogo del Vorarlberg, riusciranno a ostacolarlo; ma l’ultimo anno accademico gli riserverà una deviazione di percorso, che prevede di nuovo la discesa in Alto Adige (o Sud Tirolo, a seconda delle prospettive topografiche). Stavolta, resterà impresso qualcosa in più di un semplice ricordo d’infanzia.
L’esigenza di una frequenza pratica, tra corsia e malati, lo porta per qualche mese all’Ospedale di Bolzano. Entra con la qualifica di studente interno; in realtà, nel reparto di Medicina assume il ruolo di assistente, per il semplice motivo che non ce ne sono altri di cui il primario può disporre. Quindi, più che osservare e apprendere, agisce e impara, da solo. In ospedale fa casa e bottega; ci vive, ci mangia, ci dorme la notte, quelle poche ore che gli lasciano libere lo studio o le chiamate urgenti. Tanto si abituerà a soggiornare all’interno di pareti nosocomiali che un bel giorno troverà adatto anche per la famiglia (moglie e un buon numero di figli) questo modello di abitazione.
Ci sono le malattie infettive da affrontare; la febbre tifoide più delle altre. Ed è l’impegno in questa lotta contro batteri e virus che risulta galeotto per l’incontro con colei che diventerà la compagna della sua vita. Nell’estate del 1910 si aggira tra quei letti una giovane che si prende amorevolmente cura della nipote, affetta da scarlattina. Il tirocinante Böhler ne rimane colpito perché la vede muoversi come un’abile infermiera, ed evidentemente non solo per quello. Si chiama Poldi Settari. Il padre ha un negozio di casalinghi nel centro di Bolzano; nel paese originario della madre in Valle Isarco, Bad Dreikirchen (sarà poi l’italiana Tre Chiese nel comune di Barbiano), c’è una fattoria di cui occuparsi, e dove trascorrere le vacanze estive. Le storie di famiglia li accomunano già.
Gli sguardi tra i due si incrociano tra un giro visita e l’altro; poi si liberano di ogni pretesto lavorativo, e mutano gli scenari che fanno loro da sfondo: angoli caratteristici di Bozen, prati in fiore, lunghe passeggiate, anche un bel bicchiere di vino bianco. Poldi lo farà innamorare, di lei e dell’Alto Adige. L’«auf wiedersehen» col quale Lorenz si congeda presto da entrambi – costretto in autunno a tornare all’università di Vienna – non è saluto di circostanza, ma ferrea promessa.
Ultimi esami da superare. Quello di chirurgia sarà così brillante che il docente, direttore di Clinica, lo invita alla sua corte, una volta completato l’iter. La laurea arriva il 1° luglio del 1911. Si può un attimo tirare il fiato e festeggiare. Quale occasione per tornare in Alto Adige a riassaporare piaceri ed emozioni dell’estate precedente! E non solo. Da Bolzano si inoltra volentieri verso altre città della nostra penisola – Verona, Bologna, Roma –, attratto dalle bellezze artistiche, con una particolare predilezione per le chiese. Condizionato già da una sorta di deformazione professionale, trova anche interessante andare a visitare ospedali e istituti di cura. Tutta l’Italia gli entra nel cuore; il suo «arrivederci» suona ancora come una parola data, né guerre né confini riusciranno a cancellarla.
La Clinica chirurgica di Vienna sarà pure una sede prestigiosa, ma al neodottore Lorenz Böhler ambienti gerarchici come quello suscitano disagio, lui che già da studente si era abituato ad agire in prima linea e a prendersi le proprie responsabilità. Sicché trova più appagante imbarcarsi per il Sudamerica come medico di bordo al servizio dei tanti emigranti costretti a cercare fortuna oltreoceano. Partenza da Venezia; prima tappa, Buenos Aires; seconda, San Paolo del Brasile. Scoppia un focolaio di parotite, durante il lungo viaggio in mare, con molti casi di infezione ai testicoli; quello è il suo terreno, sa come cavarsela. Qualcun altro gli chiede di curargli i denti, e inventandosi qualcosa – un po’ come faceva quel vecchio medico di campagna che lo aveva suggestionato – si cimenta nelle prime estrazioni.
Tra uno sbarco e l’altro, e tante cose da scoprire nel Nuovo Mondo, farà ritorno dopo circa sei mesi. La Clinica chirurgica di Vienna è ancora là che lo aspetta, ma il rapporto sarebbe difficile da ricucire, e allora preferisce rivolgere lo sguardo altrove. Nella città croata di Dubrovnik, propaggine adriatica dell’Impero asburgico, c’è un ospedale militare di guarnigione che attira il suo desiderio di provare sempre nuove esperienze. Gli va bene anche fare il medico di laboratorio e familiarizzare con sifilide e reazione di Wasserman; tutto tornerà utile in futuro.
E visto che a girovagare ci prova gusto, tanto vale informarsi se c’è una opportunità di impiego anche in Alto Adige, dove il vincolo di fidanzamento con la sua Poldi comincia a richiedere qualche certezza in più. Sì, il posticino c’è, proprio all’Ospedale di Bolzano, dove era avvenuto il loro primo incontro. Stavolta è il reparto di chirurgia ad accoglierlo, in qualità di assistente. È l’autunno del 1912. Le cose maturano bene, dentro e soprattutto fuori dall’ambito lavorativo: tanto che, il 26 dicembre, i due convolano felicemente a nozze. Per la luna di miele, lo sguardo è rivolto sempre verso sud. Il Lago di Garda è la loro prima e unica tappa; durata di un solo giorno, perché lo sposo l’indomani deve riprendere servizio in ospedale. Ce ne saranno di occasioni per più lunghi ed eccitanti viaggi…
Il matrimonio appaga i sentimenti di Lorenz, non la sua irrequietezza professionale. Viene a sapere che a Tetschen an der Elbe, cittadina fluviale sita nell’attuale Repubblica Ceca, può usufruire in un colpo solo di un duplice incarico, da medico ospedaliero e da medico scolastico, con uno stipendio allettante per chi ha intenzione di mettere su famiglia. Stavolta tocca a Poldi seguirlo, forse ignara che sarà solo l’inizio di una lunga serie di trasferimenti, e anche del fatto che abitare all’interno dell’ospedale (in questo caso bastano due stanze) diventerà una consuetudine per la famiglia. Il dott. Böhler non ha ancora puntato l’obiettivo sulla traumatologia. Prende quel che il posto gli propone, e là sulle rive dell’Elba, oltre ai soliti casi internistici, deve imbattersi anche in quelli dermatologici e ginecologici.
Il primo interessamento specifico per le patologie dell’apparato scheletrico nasce forse per un caso fortuito, in occasione di un congresso negli Stati Uniti al quale ha deciso di prendere parte, accodandosi a un nutrito gruppo di chirurghi europei. Sul transatlantico che nel maggio del 1914 salpa da Amburgo alla volta di New York, Böhler ha la ventura di incontrare il belga Albin Lambotte, pioniere della osteosintesi, venti anni in più di età e di esperienza sul campo. La discussione che ne nasce, sul trattamento delle fratture, avrà un effetto illuminante.
È solo il preludio a un viaggio di studio quanto mai istruttivo. Dopo il congresso, verranno visitate le cliniche di Filadelfia, Baltimora, Washington, la già nota Mayo di Rochester. Città che sicuramente hanno anche ben altro da offrire da un punto di vista turistico. Soggiorno piacevole per Lorenz e moglie, che lo seguirà sempre in ogni suo spostamento. Sennonché un giorno, siamo alla fine di giugno, arriva dall’Europa l’eco di una ferale notizia: l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo, è stato assassinato in un attentato a Sarajevo, all’epoca facente parte dell’Impero. Si intuisce che l’avvenimento potrebbe avere conseguenze drammatiche, e così i due coniugi si affrettano a prendere la via del ritorno. Al rientro in patria il triste presagio si avvera: scoppia la Prima guerra mondiale!
Prodezze in un ospedale a Bolzano
È l’Austria-Ungheria a dichiarare il primo attacco (28 luglio 1914), contro il regno di Serbia che ha osato compiere quell’atto di rivolta. Gli schieramenti, però, assumono presto proporzioni da Grande Guerra. Dalla parte degli Asburgo, la Germania e l’Impero ottomano; dall’altra, gli Alleati, con Francia, Gran Bretagna e Russia. Alle quali poi si aggiungerà l’Italia, rompendo il patto della “Triplice”. Con l’entrata in scena anche di Giappone, Stati Uniti e colonie britanniche, il conflitto diventerà “mondiale”.
La divisa da medico militare non è più una scelta, per Böhler, ma un obbligo. La prima destinazione è un reggimento di stanza proprio in Alto Adige, precisamente a Neumarkt (oggi l’italiana Egna), dove il suo compito è quello di visitare e selezionare i soldati appena arruolati. La sede geografica è di suo gradimento, e sappiamo perché; il ruolo assegnatogli no, per niente. Ha ormai deciso di imboccare la strada della chirurgia, e non accetta di abbandonarla proprio adesso, davanti a un’emergenza bellica che potrebbe rivelarsi stimolante sul piano operativo. Le sue rimostranze ai comandi superiori sortiscono una punizione che finirà per gratificarlo: lo allontanano spedendolo prima a Linz, sulle rive del Danubio, poi nella regione della Galizia (oggi al confine tra Polonia e Ucraina), ma sono ospedali da campo, e lui non chiede di meglio. Di feriti se ne vede arrivare centinaia al giorno, ed è allora che comincerà a imporre un metodo razionale di soccorso, smistando in canali diversi le lesioni del cranio, del torace, dell’addome, degli arti; e soprattutto mettendo rapidamente il ferito nelle condizioni più idonee al trasporto. Qualche simpatizzante del lessico francofono affibbierà più tardi al metodo la definizione “triage”.
L’ingresso in guerra dell’Italia, nel luglio del 1915, risulterà quasi provvidenziale per l’ufficiale medico Böhler, che nel dislocamento di reparti verso il nuovo fronte a sud, si ritrova dapprima sulle rive del fiume Isonzo, poi a Stern, in Val Badia, dove vengono curati i feriti del conteso Col di Lana. Quelle zone gli sono più famigliari, tanto più che a sostenerlo moralmente, oltre alla moglie, è da poco arrivato il primo figlio (lo seguiranno altri cinque). Si direbbe tutto bene, pur nella gravità della situazione generale, ma c’è un intoppo, e anche questo alla fine si rivelerà un propizio segno del destino. Lui si ammala, lo portano all’Ospedale di Bressanone. La febbre alta fa ipotizzare una tubercolosi miliare, e comunque ne esce alquanto indebolito, tanto da precludergli il ritorno al fronte. Se vuole, a Bolzano c’è un piccolo edificio adibito a ospedale militare di retrovia, che ha piuttosto l’aria di un convalescenziario: può dirigerlo con poco impegno e nessuna responsabilità. Essendo un ex convento, sembrerebbe proprio il luogo adatto per un comodo ritiro in attesa di tempi migliori; e invece sarà il punto di partenza della sua grande affermazione.
La modesta finalità della struttura sta scritta a chiare lettere sulla sua intestazione: Reservelazarett für Leichtverwundete (Ospedale di riserva per feriti lievi). Quando Lorenz Böhler vi mette piede (1° agosto 1916), trova pazienti che passeggiano comodamente nel chiostro, e per lo più non occupati i tanti posti letto a disposizione; il caso più grave in cui si imbatte è quello di un militare con una frattura esposta dell’alluce, senza neanche un grado di febbre… Il convento si era già da tempo trasformato in una “Fachschule”, un istituto tecnico professionale, che con l’arrivo della guerra aveva dovuto chiudere i battenti. E in effetti i locali – tra laboratori e materiale didattico – hanno ancora molto della scuola e poco o nulla di uno stabilimento di cura; c’è solo qualche benda, un misero strumentario chirurgico, nella lista delle cose mancanti si va dalla macchina per raggi X alla semplice vasca da bagno.
Una scatola vuota, questo ospedale, privo di equipaggiamento e di malati veri; ma adesso che Böhler ha un intero stabile a sua disposizione – dopo avere girovagato per accampamenti – non ha alcuna intenzione di lasciarlo improduttivo. Chiede di poterlo impiegare per le lesioni e le infezioni osteo-articolari, e che come tale venga ufficialmente attrezzato e riconosciuto; la risposta dai piani alti è “nein”!
Non si dà per vinto, per cui ricorre ad espedienti. Il primo, riguardo all’equipaggiamento, è quello di utilizzare proprio le materie presenti nella Fachschule (legno, metallo, corde) per fabbricare stecche di immobilizzazione, telai di trazione, staffe, pulegge. E dal momento che i pazienti sono in grado di muoversi e di adoperare le mani, li recluta come operai; lui stesso, peraltro, rispolvera le vecchie conoscenze maturate nella bottega da falegname di papà.
Per il secondo, cioè il vuoto di malati, pensa che l’unica cosa da fare sia quella di andare a procurarseli. Ordisce un vero e proprio stratagemma al limite del deferimento. In piena notte si reca alla stazione ferroviaria di Bolzano. Da là transitano treni-ospedali con feriti gravi; sale su uno di questi convogli, che attende su un binario di raccordo il semaforo verde per ripartire. Si è munito di pacchi di sigarette con le quali riesce a corrompere colleghi medici e infermieri; lo lasciano libero di fare un giro per i vagoni. Quel militare con frattura di femore imbracato su una lettiga fa al caso suo, quell’altro pure; per le lesioni agli arti superiori seleziona le più complesse. Tutto si svolge in pochi minuti, azione furtiva in piena regola. Con l’aiuto di alcuni subalterni, trasporta fuori i feriti prescelti – sedici in tutto – e prima che faccia giorno li rinchiude nel suo Reservelazarett. Si è preso da solo ciò che aveva chiesto; d’ora in avanti non lo fermerà più nessuno.
Quello che riesce a creare in breve tempo è un reparto speciale per le lesioni ossee e articolari da arma da fuoco, come chiaramente indicato dalla nuova intestazione dell’ospedale (Spezialabteilung für Knochenschußbrüche und Gelenkschüsse), che si rivelerà un modello di efficienza e di organizzazione. Il trattamento delle fratture ha bisogno di regole, di metodologie, di procedure standardizzate. Lui le stabilisce e le impone, preoccupandosi anche di garantire a tutti – medici, infermieri, portantini – quella formazione specialistica che nessun corso di studi è riuscito a dar loro. Ogni atto deve rispettare un protocollo preciso, codificato e scritto. Ce n’è uno, ad esempio, per come allestire un telaio di trazione, uno per come applicare una stecca di contenzione, un altro ancora per come posizionare il paziente a letto o come farlo muovere; e così via, con una attenzione quasi ossessionante su ogni minimo dettaglio.
Circola presto la voce. L’ufficiale Böhler non ha più bisogno di andare a “rubare” i malati; glieli portano. Già tre mesi dopo il suo arrivo a Bolzano è in grado di presentare 20 gravi fratture da arma da fuoco in una seduta di medicina militare a Trento; e qui ci sono più di cento colleghi che ascoltano e approvano meravigliati. Lo sentono parlare di priorità (“prima salvare la vita, poi l’arto, poi la funzione”), di princìpi di trattamento (“diagnosi precoce, immobilizzazione del focolaio di frattura, mobilizzazione del paziente”), di quanto sia doveroso documentare e archiviare ogni dato, compilare statistiche per farle confluire nella letteratura. Così si confronta con i nomi più celebri della chirurgia ortopedica tedesca: con Georg Perthes, con Fritz Lange, con Max Schede, con Ernst Sauerbruch.
Molti sono i medici e gli studenti che preferiscono recarsi a Bolzano e vedere di persona; alla fine se ne conteranno non meno di quattrocento. Tra quelli che lo onorano di una visita, c’è George Hohmann, noto chirurgo di Monaco di Baviera (sì, quello del “divaricatore” omonimo), il quale rimane sorpreso dell’ordine che regna nelle corsie e di come vi sono distribuiti i malati: in una sono allineati in trazione tutti quelli con frattura di femore, in un’altra quelli con frattura di gamba, e così di seguito per le fratture di braccio e di avambraccio.
Ha dovuto lottare, Böhler, per raggiungere certi traguardi. L’apparecchio per raggi X è riuscito a ottenerlo soltanto dopo sei mesi; per le lastre è stato costretto a rivolgersi al mercato di contrabbando. Espedienti e arte di arrangiarsi. Come quella di mettere i malati al servizio della struttura anche come personale infermieristico, che è carente. Si scopre che non c’è sistema più valido per una auto-rieducazione: i fratturati agli arti inferiori impiegati come portantini, e così stimolati in qualche modo a camminare, quelli col braccio rotto a servire il cibo, o preparare garze e bende. I numeri daranno ragione. Nell’aprile del 1917, le lesioni scheletriche trattate ammontano a 830.
A Vienna il tempio delle fratture
Finora la guerra è stata solo una fonte di lavoro, una continua provvista di feriti da accogliere, senza che le cronache dal fronte del Nord-Est italico abbiano creato stravolgimenti. Ma un bel momento le cose cambiano. Nell’autunno del 1918 le truppe austro-ungariche sono costrette a cedere a quelle tricolori nella battaglia decisiva di Vittorio Veneto, e di lì a poco (3 novembre) l’Armistizio di Villa Giusti sancisce il passaggio del Trentino e dell’Alto Adige al Regno d’Italia.
Böhler e il suo ospedale diventano, di fatto, prigionieri di guerra. Un bottino da custodire, perché mantenere funzionante una struttura così bene attrezzata e lasciare alla sua direzione uno specialista così capace sarebbe oltremodo conveniente. Per cui la Sanità Militare italiana decide che l’attività di quell’ospedale di Bolzano debba andare avanti, come prima. Proseguirà ancora per sei mesi, nonostante la guerra sia finita, ospitando feriti di ambedue gli schieramenti, senza alcun problema; e alla fine i numeri cresceranno fino a 1200. Adesso sono i medici italiani che accorrono per frequentare e apprendere, sostituendosi a quelli austriaci o tedeschi; e a Böhler viene chiesto di fare anche da consulente per altri ospedali militari del territorio. Si instaura un rapporto di collaborazione e di amicizia che si rivelerà solido e duraturo.
Il distacco definitivo, tuttavia, è ormai inevitabile. In quelle valli che lo avevano attratto fin dall’età scolare, che gli avevano fatto incontrare la futura moglie, che gli avevano procurato la fama di traumatologo d’avanguardia, lui è ormai uno straniero. Rientrando in Austria, spera che il suo modello di ospedale specializzato per la cura delle lesioni scheletriche di guerra venga accettato anche in tempo di pace. Se non altro per i vantaggi dal punto di vista economico: ha dimostrato infatti, conti alla mano, che i postumi invalidanti delle fratture curate secondo i suoi metodi si sono notevolmente ridotti e che il risparmio in pensioni o indennizzi è stimabile nell’ordine del 50-70 per cento.
Niente da fare, la sua voce rimane inascoltata, almeno nei primi tempi. Per trovare una occupazione bussa inutilmente anche alla porta di Georg Perthes a Tubinga, poi a quella di Hans Spitzy, che dirige il reparto ortopedico universitario di Vienna. E allora non gli resta che ridiscendere in Alto Adige, dove tutto risulta più facile, e dove peraltro è rimasta la famiglia (moglie e cinque figli, uno è morto in tenera età). Si rintana inizialmente a Villa Grabmeier, sua residenza nel borgo di Gries, sopra Bolzano, e riesce a trasformarla in una piccola struttura ospedaliera; la limitata capienza non basta a frenare il pellegrinaggio di malati. Poi viene a sapere che si è liberato un posto di primario nel reparto di chirurgia dell’Ospedale di Bressanone, e al relativo concorso ottiene il punteggio più alto. Eludendo il vincolo di cittadinanza e quello anagrafico (c’è una clausola che fissa a 38 anni il limite massimo, lui ne ha da poco compiuti 39), gli amministratori locali sono ben contenti di ufficializzare il suo insediamento: 1° maggio 1924. Sarà la sua ultima esperienza professionale alto-atesina.
Finalmente in Austria, l’AUVA-Allgemeine Unfallversicherungsanstalt (Istituto generale di assicurazione contro gli infortuni) si rende conto che una struttura esclusivamente dedicata alla cura delle lesioni scheletriche possa essere adeguata anche alle esigenze della infortunistica civile. Lo richiamano a Vienna, e a Webergasse (letteralmente, Vicolo dei Tessitori) gli mettono a disposizione un intero edificio di sei piani in stile neoclassico, che è la sede degli uffici. Trasformarlo in un ospedale è un’impresa che Böhler sa bene come affrontare. Progetta, rimuove, equipaggia; e dopo pochi mesi, esattamente il 1° dicembre del 1925, ha il via la sua nuova avventura, come direttore medico e primario dell’Unfallkrankenhaus, ospedale per infortuni, il primo in Europa e per lungo tempo anche il più rinomato.
Tutto viene organizzato a immagine e somiglianza del Reservelazarett di Bolzano. Disposizione delle stanze, distribuzione dei malati per tipo e sede di lesione, disciplina e mansioni del personale. L’ordine che regna è quello di stampo militare. Per inculcare le regole a tutti coloro che svolgono un ruolo – dal primo medico all’ultimo inserviente – applica manifesti dappertutto come fossero tavole della legge. Precetti ovvii ma non banali da rileggere. Ad esempio: i feriti gravi devono avere un soccorso rapido; calmare il dolore anche solo per fare una radiografia; esercitarsi all’uso di ogni nuovo strumento; nelle stanze dei malati non si chiacchiera e non si ride; tutte le informazioni devono essere registrate; sugli apparecchi gessati vanno segnalati data di confezionamento, firma del medico, data del previsto controllo, sede e morfologia della frattura (possibilmente con un disegno). E via così, oltre i limiti numerici di un decalogo.
Stavolta è l’intera sua famiglia che si trasferisce. La moglie Poldi ha deciso di sostenere in tutte le maniere l’attività del marito, e asseconda ancora la sua convinzione che un primario debba vivere sotto lo stesso tetto dell’ospedale. Al 4° piano del palazzo viene ricavata l’abitazione ufficiale. Solo così, del resto, si possono rispettare alcune delle sue tante regole imposte: che il capo (cioè lui) debba essere chiamato quattro volte al giorno dal medico di turno per essere messo al corrente di tutto; che ripassi nel tardo pomeriggio per la contro-visita; che venga obbligatoriamente svegliato di notte in caso di arrivo in Pronto Soccorso di un ferito grave…
A riempire i posti letto, progressivamente aumentati di numero, non ci mette tanto. Dai 52 iniziali passa ai 120 nel 1934. Funziona anche qui, nei primi tempi, la “corruzione delle sigarette”, stavolta distribuite agli autisti del servizio di soccorso, quando ancora sono in molti a storcere il muso. Poi viene affissa sul portone d’ingresso la scritta “Aufnahme von 0-24 Uhr” (Accettazione dalla 0 alle 24), e non ci sarà più problema per catturare clientela. Accoglienza è una delle parole d’ordine. Non solo per i pazienti, che lo raggiungono persino da quell’Alto Adige diventato Italia; ma anche per medici e studenti frequentatori, provenienti da ogni parte dell’Europa e da altri continenti (se ne conteranno fino a 4000 nel corso di dieci anni). Un’accoglienza che contagia anche il “4° piano”, dove la moglie Poldi è sempre pronta a ritardare un pranzo o una cena, e ad aggiungere posti a tavola per i visitatori dell’ultima ora.
L’edificio della Webergasse (toponimo che diventerà un marchio di identificazione dell’ospedale in cui è situato) è una roccaforte inattaccabile per il dott. Böhler, il quale ha ora in mano tutti gli strumenti e l’esperienza pratica per sostenere i suoi princìpi di trattamento. Che sono quelli già professati in tempo di guerra: in ogni frattura i frammenti ossei devono essere allineati con precisione; i frammenti ridotti devono essere mantenuti in buona posizione continuativamente fino a quando non sono uniti; durante il necessario periodo di immobilizzazione il maggior numero di articolazioni, anche dell’arto leso, deve essere mosso attivamente, al fine di evitare disturbi circolatori, atrofia dei muscoli e rigidità delle articolazioni.
La trazione transcheletrica, soprattutto per le fratture dell’arto inferiore, resta un caposaldo del suo metodo; rispetto alla immobilizzazione gessata d’emblée, permette di scongiurare quegli accorciamenti che gravano pesantemente sul recupero funzionale e sugli indennizzi. La sua predilezione per il trattamento conservativo è manifesta, ma non esclusiva, come qualcuno gli rimprovera; è infatti il primo in Europa, insieme allo svedese Sven Johansson, a utilizzare il chiodo triflangiato di Smith-Petersen (provenienza Boston) per sintetizzare le fratture del collo del femore; più in là negli anni, diventerà un sostenitore – dopo un iniziale scetticismo – dell’inchiodamento endomidollare secondo Gerhard Küntscher per le fratture della diafisi.
Data la sua predisposizione a precisare ogni particolare di un percorso diagnostico o terapeutico, a catalogare foto e immagini rx, a redigere statistiche, viene invitato da più parti a mettere tutto nero su bianco su un testo di facile consultazione. Dapprima accontenta la richiesta che gli perviene da studenti dell’American Medical Association of Vienna, buttando giù una dispensa di 17 pagine dattiloscritte in inglese. Ma sarà solo il primo abbozzo di quello che diventerà il più celebre trattato di traumatologia del Novecento: Die Technik der Knochenbruchbehandlung (La tecnica del trattamento delle fratture). Pubblicato in tedesco nella primavera del 1929, seguiranno 28 anni di ristampa e 13 edizioni in otto lingue, compresa quella italiana. Dalle 176 pagine della prima uscita, con 234 illustrazioni, si arriverà alle 2800, con oltre 4000 illustrazioni.
Dentro c’è tutto. Dalla frattura del cranio a quella delle falangi del piede. Per quanto sia chiaro, minuzioso, sistematico nella esposizione, viene confidenzialmente definito “il libro da cucina” della traumatologia. Un corposo manuale, più che un trattato. Anche perché Böhler non si limita soltanto alla descrizione di una metodica, ma si sofferma anche sui possibili rischi ed errori di tecnica, sulle complicazioni e sui cattivi risultati verso cui lui stesso è andato incontro, spiegandone le cause. E se volentieri si presta a redigere nuove edizioni è perché, oltre ad arricchirle di ulteriori elementi, vi trasmette i suoi nuovi orientamenti, pure a costo di smentire le sue precedenti opinioni. Arriverà addirittura ad aggiungere un terzo volume, interamente dedicato alla tecnica dell’inchiodamento di Küntscher, tanto per smentire chiusure mentali e individualismi. In un suo motto compendia e chiarisce la propria opinione sul miglior trattamento delle fratture: «Il più conservativo possibile e il più operativo necessario».
Su una delle tante immagini del libro è nato l’eponimo che – ancora oggi – fa spesso risuonare il suo nome nei reparti di traumatologia. Siamo nel capitolo delle fratture di calcagno, in un paragrafo dedicato alla diagnosi radiologica. Leggiamo il suo testo originale (tradotto in italiano). «In condizioni normali, tra una linea che va dal punto più alto del bordo articolare anteriore al punto più alto della superficie articolare posteriore del calcagno, ed una seconda linea che percorre la superficie superiore della tuberosità del calcagno, esiste un angolo che oscilla tra 140° e 160°. L’angolo complementare determinato dal prolungamento in addietro di queste due linee oscilla tra 20° e 40°. Siccome questo angolo acuto è di facile misurazione ed è valutabile ad occhio, io lo chiamo “angolo tuberositario articolare”. Dopo una frattura di calcagno questo angolo diminuisce o scompare o si fa negativo. Per mezzo dell’angolo tuberositario articolare abbiamo un mezzo esatto per determinare i risultati di una riduzione e per seguire il decorso ulteriore». Da allora in poi, l’angolo tuberositario articolare è diventato per tutti, e in tutto il mondo, l’angolo di Böhler.
Altro eponimo nato sulle pagine del libro, e forse meno conosciuto, è il “segno del menisco di Böhler”: si sollecita il ginocchio, flesso di 20°, in varismo o valgismo, in modo da comprimere il menisco tra condilo femorale e condilo tibiale; nelle lesioni meniscali tale manovra diventa dolorosa, rispettivamente per il menisco mediale e per quello laterale.
Nel 1930 viene ufficialmente introdotto in Austria l’insegnamento di “chirurgia dei traumi”, e non può essere che lui – propugnatore instancabile – ad avere per primo la relativa nomina di docente. Sarà lunga la strada prima di ottenere il titolo di professore ordinario (1954), e ancora di più quella per il riconoscimento ufficiale di una cattedra (1971). Intanto, però, le sue lezioni richiamano un numero sempre maggiore di studenti, magnetizzati dai suoi strumenti didattici: pannelli, lavagne, radiografie, diapositive, filmati. Il messaggio su princìpi e leggi di base è martellante.
I suoi viaggi all’estero, adesso, scaturiscono da inviti. Provengono dai lontani Stati Uniti, dove una volta era andato per imparare e adesso lo chiamano per insegnare, o anche dalla vicina Italia. Nel 1938 va a Bologna a ritirare un premio a scadenza quinquennale per la migliore pubblicazione nel campo della ortopedia e della traumatologia. Ovviamente si tratta della sua monografia sulle fratture, e non è ancora uscita la prima edizione in lingua italiana, che vedrà la luce solo nel 1940, edita da Vallardi, con la prefazione di Riccardo Dalla Vedova, direttore della Clinica ortopedica di Roma, e la traduzione di Giuseppe Tancredi, suo aiuto, e di Enrico Pachner, primario del reparto INAIL dell’Ospedale San Martino di Genova.
Böhler è di casa, a Bologna e all’Istituto Rizzoli, dove ha avuto più volte occasione di stringere la mano al direttore Vittorio Putti. Una di queste risale al 1936, quando in Italia è stato organizzato e presieduto il 3° congresso della SICOT, la società internazionale della chirurgia ortopedica e traumatologica, in cui lui figura come uno dei dieci membri austriaci. Sul Colle di San Michele in Bosco si ripresenterà ancora: una foto lo ritrae in compagnia del prof. Francesco Delitala, successore di Putti nel periodo tra il ’40 e il ’53.
Lieti ritorni nella nostra Penisola
Neppure i fuochi della Seconda guerra mondiale – più sconvolgente e devastante della Prima – riescono a distogliere Böhler dal suo impegno; anzi, lo responsabilizzano ancora di più, noncurante di confini e schieramenti che cambiano di volta in volta. La Germania nazista, già prima che abbia dato il via al conflitto con l’invasione della Polonia (1° settembre 1939), si è assicurata l’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria. Per cui a lui compete una divisa da ufficiale medico della Wehrmacht e l’obbligo di abbandonare la sua casa-ospedale di Vienna. Si è già fatto un nome e una età (55 anni), gli spetta un avanzamento di grado e un ruolo direttivo da chirurgo consulente. Lo mandano in giro di perlustrazione negli ospedali militari dislocati in Polonia, prima; poi in quelli della Russia. Più tardi, gli affideranno un ospedale militare a Vienna, con 400 posti letto. Affinché le sue raccomandazioni non si perdano nel vuoto, fa affiggere alle pareti – alla sua maniera – pannelli con regole stampate; quella di evitare a tutti i costi il dolore al ferito è tra le più ricorrenti.
Se non è lui in persona a fare da guida, ci pensano i suoi tanti allievi medici a diffondere il suo verbo (che siano dalla parte dei conquistatori o dei prigionieri); altrimenti, basta consultare il suo famoso trattato, che peraltro nelle nuove edizioni di quegli anni adotta un titolo più adeguato al momento: “La tecnica del trattamento delle fratture in guerra e in pace”. Per i suoi servizi speciali nella chirurgia dei traumi, Böhler si guadagnerà la Croce di Cavaliere al merito di guerra, che lascerà cucita alla sua uniforme. Ma ci sarà una croce di dolore che si porterà per sempre nell’animo. Due dei suoi figli si ritrovano coinvolti nei combattimenti. Per uno, gravemente ferito, riuscirà a mettere in atto le cure risolutrici; per l’altro, appena ventenne, risulterà vano anche il tentativo di obbedire al primo dei suoi tre comandamenti: salvare la vita!
La ripresa post bellica fa impennare il tasso di infortuni, procurati dal lavoro, soprattutto, ma anche da incidenti stradali e sportivi. Di strutture sanitarie traumatologiche e di chirurghi specialisti in materia c’è sempre più bisogno. L’Unfallkrankenhaus di Vienna, nonostante i danni subiti in un bombardamento, resta il centro con le casistiche più consistenti, un modello da imitare, sia in altre città dell’Austria come in tutta Europa. Si mobilità anche l’italiana INAIL, che comincia a inviare alla Webergasse i propri medici; l’impulso viene dal direttore generale in persona, la cui figlia è stata operata con successo da Böhler. L’Istituto Nazionale per le Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro farà presto nascere – seguendo per quanto possibile il modello austriaco – i suoi reparti ospedalieri e i suoi CTO (Centri Traumatologici Ortopedici) sparsi per tutta Italia.
Avrà modo di visitarli questi centri, Böhler. Ogni occasione è buona per valicare il Brennero e scendere nella nostra penisola. Intanto, d’estate è solito soggiornare nella tenuta di campagna della moglie, a Barbiano/Dreikirchen, dove trova la quiete e l’ambiente ideale per le sue passeggiate, ma anche per continuare a studiare e a scrivere. Poldi, che è amante delle arti figurative, e ha frequentato un corso di pittura a Roma, lo accompagna volentieri a visitare le nostre città, tra mostre, musei e monumenti. Lungo questo itinerario, la fermata in un ospedale o in un reparto ortopedico non manca mai. E quasi si stupisce che altri non abbiano lo stesso interesse. Un giorno, a un suo assistente tornato da un viaggio di nozze in Egitto, chiede se oltre alla Piramidi è andato a visitare anche l’istituto ortopedico della capitale, Il Cairo. No, non è andato, ma promette che nel viaggio successivo, in Italia, pianificherà meglio. «Bene – risponde lui – allora ti darò l’elenco di tutti gli ospedali ortopedici italiani da visitare…».
Nel 1938, l’anno in cui aveva ricevuto il premio a Bologna, Böhler era stato inserito nell’elenco dei soci onorari della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia; e da allora lo si rivedrà spesso partecipare attivamente ai vari congressi nazionali che si succederanno. Lo ritraggono foto d’archivio, ora in platea, attento a seguire la presentazione di un relatore, ora a dialogare amichevolmente con un collega, ora coinvolto nell’atmosfera goliardica di una cena sociale. È vero che la scienza non ha confini, ma lui ha tutta l’aria di essere proprio uno di famiglia. Lo diventerà anche il figlio Jörg, specialista – manco a dirlo – in chirurgia dei traumi, che la SIOT accetterà come socio corrispondente nel 1953.
L’Italia attrae Lorenz Böhler anche per motivi religiosi, lui che è originario della regione del Vorarlberg, profondamente cattolica per tradizione. Entrare in una chiesa, sappiamo, gli ha sempre procurato un’emozione particolare. Nella primavera del 1963 si reca a Roma per l’ennesimo congresso scientifico; nel programma sociale è previsto per i partecipanti un ricevimento del papa, e questo è un evento al quale non rinuncerebbe per niente al mondo. È Giovanni XXIII, il “papa buono”. Al termine dell’udienza, il cerimoniale prevede che si sfili ordinatamente davanti al pontefice per raccogliere una stretta di mano e una benedizione, in rapida successione. Böhler arresta la fila; con molta deferenza, e altrettanta sfrontatezza, si ferma con lui a parlare, e a un certo punto ha anche l’ardire di rivolgergli le seguenti parole: «Vostra Santità, lei è il più grande operatore ospedaliero del mondo; deve assolutamente allestire reparti per infortuni nei suoi ospedali…». Ne nasce una conversazione che sembra appassionare entrambi, creando profondo imbarazzo nel personale di vigilanza. Alla fine Böhler si congederà omaggiando il suo eletto interlocutore con un piccolo strumento chirurgico che tira fuori dal suo taschino. L’incontro resterà memorabile.
Ha ormai 78 anni, Lorenz Böhler, e il suo processo di distacco dalla vita lavorativa ha già avuto inizio, ma in maniera lenta, quasi esitante; non sia mai che un uomo come lui, pienamente dedito alla sua professione e mai sedotto da un hobby particolare, si lasci trascinare nell’ozio. Incarichi di consulenze, titoli onorifici e riconoscimenti scandiranno gli ultimi dieci anni della sua vita. Farà in tempo a vedere realizzato una delle sue più grandi aspirazioni: una cattedra universitaria riservata alla chirurgia dei traumi; in Austria, nel 1971, ne istituiranno addirittura due.
Il 9 novembre del 1972 viene inaugurata a Vienna una nuova sede dell’Unfallkrankenhaus, all’epoca il più moderno istituto traumatologico d’Europa, che viene intitolato al suo nome: “Unfallkrankenhaus Wien-Lorenz Böhler”. A dirigerlo – soddisfazione sicuramente ancora più grande per lui – verrà chiamato il figlio Jörg. A quel punto, papà Lorenz avrà buoni motivi per ringraziare il Signore, un attimo prima di dare serenamente addio a questo mondo: 20 gennaio 1973, cinque giorni dopo aver compiuto 88 anni.
Il 30 novembre dello stesso anno, in occasione del 58° congresso della SIOT, a Roma, il prof. Luigi Bocchi, in qualità di presidente in carica della Società, si sentì in dovere di commemorarlo, pronunciando le seguenti parole: «Tutti ricordano la sua persona alta ed eretta, i suoi occhi chiari ed il mento ornato di una candida barba. Sotto un aspetto autoritario e dogmatico nascondeva una personalità dolce ed affabile. Amò l’Italia come sua seconda patria e spesso si rifugiava nella sua villa nel Tirolo…».
Titoli di coda
- L’edificio di Bolzano adibito nel corso della Prima guerra mondiale a “ospedale militare di riserva”, diretto da Böhler per quasi tre anni, è ancora in Piazza Domenicani, nome che si rifà alla sua destinazione originaria di convento dei Padri Domenicani. Ristrutturato e ampliato dopo i danni subiti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, è oggi la sede del “Conservatorio Claudio Monteverdi”.
- Villa Grabmeier, nel borgo di Gries, oggi quartiere di Bolzano, è stata trasformata in un edificio residenziale suddiviso in appartamenti.
- È stato intitolato a Lorenz Böhler un ospedale traumatologico a Merano, chiuso da anni e oggi adibito a scuola alberghiera.
- Il nuovo Ospedale Provinciale centrale di Bolzano è situato in Via Lorenz Böhler.
- Jorg Böhler, figlio di Lorenz, ha diretto l’Unfallkrankenhaus Wien-Lorenz Böhler fino al 1983; è mancato nel 2015 (a 88 anni come il padre).
- Il Lorenz Böhler Hospital (come oggi viene universalmente chiamato) continua a essere uno dei centri traumatologici più importanti del mondo.