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Circolavano in Italia, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, più di quindici riviste specialistiche che trattavano esclusivamente argomenti di ortopedia e traumatologia. Le pubblicazioni si riversavano su un terreno vasto, in cui era facile disperdersi e sfuggire alla loro raccolta. Per non parlare di quelle che venivano ospitate su giornali di numerose altre discipline più o meno affini – anatomia patologica, chirurgia, pediatria, reumatologia, radiologia –, dove finivano spesso per restare ignorate. Una mole di conoscenze, di casistiche, di proposte innovative, che meritava in qualche modo di essere recuperata e catalogata, così da agevolarne la fruizione.
Un ortopedico di ampie vedute e di rigida impostazione scientifica avvertì più di altri questa esigenza, e senza indugiare in inutili dibattiti presentò ai colleghi una proposta concreta. Il suo nome, Carlo Pais, aveva già scalato i gradini della notorietà; la sua idea di compilare un indice bibliografico avrebbe contribuito a riservargli un posto in prima fila nella storia dell’ortopedia italiana.
Era il 29 ottobre del 1957. A Roma, nell’ormai familiare aula della Clinica ortopedica nella Città Universitaria, si svolgeva la seduta inaugurale del 42° congresso nazionale della SIOT. Il prof. Pais, 47 anni, si presentava per la prima volta all’assemblea nella veste di presidente della Società, tra i più giovani dei ventidue che fino ad allora si erano avvicendati al vertice. La sua proverbiale timidezza non poteva che essere mascherata dal contegno che richiedeva l’importanza del ruolo; ma nulla di enfatico scaturiva dalla sua oratoria, chiara, diretta, efficace. «Il comitato direttivo permanente presenta oggi ai soci un Indice bibliografico Italiano di ortopedia e traumatologia…». Si trattava di una raccolta di citazioni bibliografiche relative a lavori su argomenti specialistici, comparsi negli ultimi 50 anni su tutte le riviste italiane del settore, nonché su monografie e trattati. «…ritengo sarà di utile consultazione per noi, come potrà testimoniare all’estero l’imponente contributo italiano al progresso della specialità».
Dirigeva da tre anni la Clinica ortopedica di Genova, Carlo Pais; e anche qui si poteva parlare di tappe bruciate. Era cresciuto professionalmente alla corte di Francesco Delitala, e la rigorosa impostazione “rizzoliana” gli era stata trasmessa già agli inizi della sua carriera, a Venezia, prima ancora che – seguendo i trasferimenti del suo maestro – mettesse piede nell’istituto bolognese e vi restasse per quasi dodici anni. Adesso era diventato lui il maestro. Quando approdò a Genova, nel febbraio del ’54, si ritrovò a gestire una attività di enormi proporzioni, perché da una parte l’amministrazione dell’Ospedale San Martino gli aveva affidato la guida di un reparto che riunisse in sé, con circa 100 posti letto, sia la componente universitaria che quella ospedaliera; dall’altra, l’Istituto Gaslini, in una diversa zona della città, aveva creato per lui una sezione di ortopedia infantile di pari capienza. Tutto questo, senza tener conto dell’Istituto Santa Corona di Pietra Ligure, in provincia di Savona, dove c’era una divisione convenzionata con la Clinica genovese, e dove era necessario di tanto in tanto garantire la propria presenza. Tra aiuti e assistenti distribuiti nelle varie sedi, se ne contavano più di cinquanta; erano pochi i cattedratici, a quel tempo in Italia, che potevano vantare un seguito così numeroso.
Giovane presidente di Società, sì; ma con la legittima autorità che gli veniva dalle posizioni già raggiunte in campo accademico e assistenziale. Quel carattere introverso, che agli occhi dei suoi allievi appariva alquanto austero e rigido nei modi, gli conferiva forse l’aspetto di una persona ben più matura rispetto alla sua età anagrafica. E comunque anche nell’ambito della SIOT aveva fatto registrare una progressiva crescita. Già nel ’46, infatti, nel primo congresso post-bellico, era stato relatore su uno dei due temi principali, “Il trattamento delle fratture articolari esposte”; quattro anni dopo aveva replicato a Torino con “Il trattamento della lussazione patologica dell’anca”. Era poi stato nominato consigliere per due mandati, prima di succedere nella carica di presidente al prof. Pasquale Del Torto, direttore della Clinica ortopedica di Napoli. Aveva peraltro già presieduto la Società Italiana di Ginnastica Medica, primo eletto all’atto della sua fondazione, nel 1952.
L’idea dell’Indice bibliografico, probabilmente, covava già da tempo nella mente di Pais, e l’elezione a presidente della Società, deliberata nel congresso dell’anno prima a Bologna, gli diede la spinta decisiva per metterla in pratica. A Roma non ci fu il lancio di una proposta ma la presentazione di un progetto già realizzato, grazie soprattutto all’impegno che avevano profuso i suoi collaboratori della Clinica ortopedica di Genova. Non restava quindi che confidare sul raggiungimento degli scopi che si era prefissato: «Spero che questa fatica non sia stata vana ed ho fiducia che la vastità di questo indice eviti la pubblicazione di qualche lavoro superfluo e favorisca gli studi che realmente affermano il divenire della nostra disciplina».
Buoni e nobili propositi. Tutti coloro che si apprestavano a scrivere un lavoro scientifico erano in qualche modo richiamati al dovere di documentarsi e di revisionare l’intera bibliografia sull’argomento. Bisognava consolidare e aggiornare le proprie conoscenze in materia; ma anche evitare di ripetere cose già dette da altri. Insomma una sorta di pubmed cartaceo ante litteram. Solo così si potevano filtrare pubblicazioni serie e di effettivo valore; solo così il nome dell’ortopedia italiana poteva guadagnare prestigio.
Questa iniziativa sembrava proprio il trasferimento in concreto di una delle maggiori doti intellettuali di Pais. Scriveva il suo maestro Delitala, che dovette sostenere la pena di sopravvivergli: «Molti ricorderanno la sua eccezionale memoria, per cui poteva essere considerato una specie di indice bibliografico od una enciclopedia vivente». Il che farebbe pensare subito a una virtù innata, quando invece, a svilupparla, era stata piuttosto la necessità di sacrificarsi nello studio fin dai tempi dell’età scolare, pur di superare ristrettezze economiche. E soprattutto, non era fine a sé stessa, perché ogni sua acquisizione teorica doveva avere un riscontro nella pratica medica quotidiana, ogni suo percorso di indagine aveva il caso clinico come punto di partenza e di arrivo.
Una carriera da umile e rapida scalata
Le spoglie di Carlo Pais Tarsilia (doppio cognome che di tanto in tanto ricorre in documenti ufficiali) riposano da 65 anni nel cimitero di Auronzo di Cadore, il paese ai piedi delle Dolomiti bellunesi dove era nato, il 24 febbraio del 1910. Origini umili, famiglia numerosa, unico sostentamento la piccola bottega di papà artigiano. Bisognava allontanarsi da casa anche solo per frequentare la scuola media; un’adolescenza già temprata da tenacia e umiltà, caratteri distintivi della gente del luogo. Per mantenersi agli studi all’Università di Padova, non trovò di meglio che adoperarsi nella mansione di istitutore presso lo stesso liceo di Venezia che lo aveva accolto da studente. Si narra che addirittura, durante qualche sessione estiva di esami del corso di laurea, non avesse esitato a trascorrere la notte sulle dure panchine in pietra di Prato della Valle pur di risparmiare i soldi di un alloggio.
Quando ottenne il diploma di laurea – autunno del ’34, nel pieno rispetto dei tempi – aveva già frequentato a lungo, da studente interno, l’Ospedale Civile di Venezia, rintanandosi volentieri nel laboratorio di anatomia patologica; qui, esercizi in sala settoria, autopsie e osservazioni al microscopio avevano reso ben solide le basi nozionistiche e sviluppato le prime capacità diagnostiche. A quel punto poteva imboccare, con uguale disinvoltura, qualsiasi strada specialistica; e infatti, nei primi sei mesi del ’35 prestò servizio come assistente in una divisione di otorinolaringoiatria, per i successivi dieci in una di malattie infettive.
L’incontro con l’ortopedia – disciplina destinata a unire ed esaltare le sue buone inclinazioni sia in campo medico che in quello chirurgico – avvenne per una casualità. Il professor Francesco Delitala, primario di Ortopedia e Chirurgia Infantile dello stesso nosocomio prima citato, era in cerca di un disegnatore che riuscisse a corredare con immagini esplicative un suo articolo sulla tubercolosi ossea dell’arto superiore. Gli parlarono di un certo dott. Pais, giovane e volenteroso medico, che con matite e pennarelli aveva dimostrato di saperci fare. Venne catturato e trattenuto, e il 1° maggio del 1936 entrava ufficialmente nell’équipe di quel reparto.
C’erano ben altre qualità da valorizzare, oltre a quella del disegnatore anatomico. Delitala non perse tempo a riconoscerle, intravedendo l’ingegno e la forza di volontà che si celavano dietro una parvenza di estrema riservatezza. Incoraggiò Pais a frequentare ancora la sala di anatomia patologica, provando e riprovando sul cadavere vie e tecniche chirurgiche; e a trarne beneficio dovevano essere tutti i colleghi, primario compreso. Ci voleva poco, poi, a stuzzicare la sua insaziabile sete di sapere; quella mania di sondare tutta la bibliografia su un argomento – che più tardi avrebbe ispirato la proposta dell’Indice – faceva già parte del suo scrupoloso metodo nella preparazione di un lavoro scientifico. La stoffa del buon ortopedico traspariva anche nelle attività pratiche, notando con quale perizia e con quanto gusto si cimentava in un lavoro meccanico manuale, retaggio dei trascorsi infantili nell’officina di papà.
Collaboratore prezioso, insomma, di cui Delitala non poteva assolutamente fare a meno. Tant’è che volle averlo al suo fianco nei propri successivi trasferimenti, prima a Napoli, nel ’40, quando finalmente saliva su una cattedra di Clinica ortopedica, e poi a Bologna, l’anno dopo, quando la morte improvvisa del maestro Vittorio Putti gli riapriva, da direttore, le porte dell’Istituto Rizzoli. Carlo Pais, a dire il vero, proprio a cavallo di questi anni dovette assolvere al dovere del richiamo alle armi, indossando la divisa di tenente medico. Fu per lui un’esperienza drammatica e formativa allo stesso tempo; inviato al fronte dell’Africa settentrionale, si trovò a gestire in un ospedale da campo nei pressi di Tobruch (luogo evocante la disfatta delle nostre truppe) un’emergenza sanitaria di eccezionali proporzioni. Dovette darsi da fare in sala operatoria di giorno e di notte, praticando più di 500 interventi su militari feriti agli arti, ma anche al cranio, al torace o all’addome. Attività poi proseguita in un ospedale militare di retrovia a Tripoli, con immutato senso di sacrificio, a tal punto che il suo fisico ne rimase fiaccato, e il suo cuore colpito da una malattia; venne pertanto rimpatriato per riconosciuta invalidità di guerra. Una disavventura che volle poi rimuovere dalla sua mente, soprattutto per il rispetto nei confronti del fratello Ippolito, che invece era partito per la Campagna di Russia, e là avevo perso la vita.
Il successivo periodo trascorso da Carlo Pais al Rizzoli, dal giugno del ’42 a tutto il ’53, fu sicuramente il più intenso e il più ricco di gratificazioni per la sua ascesa professionale. Sotto l’ala del prof. Delitala guadagnò, di giorno in giorno, posizioni di carriera e stima da parte dei colleghi, che fossero più giovani o più anziani di lui. Promosso dopo i primi quattro anni da assistente ad aiuto universitario, nel ’48 subentrò al celebre Oscar Scaglietti come primo aiuto, titolo che gli assegnava di fatto il ruolo di guida per i tanti medici frequentatori o studenti che affollavano i locali dell’istituto bolognese. Una presenza costante la sua, vigile e instancabile in laboratorio come in corsia, in ambulatorio come in sala operatoria; severo nell’aspetto, occhiali grandi e sigaretta sempre a portata di mano, sapeva comunque essere prodigo di consigli, soprattutto quando si trattava di redigere un lavoro scientifico, per la cui stesura non faceva mai mancare un incoraggiamento.
L’iter accademico fu uno sbocco naturale della sua preparazione e della sua personalità. Abilitato alla libera docenza nel ’43, e subito affidatogli al Rizzoli il corso di Terapia Fisica e poi di Apparatoterapia per scuole di perfezionamento, nel ’48 venne incaricato dell’insegnamento ufficiale di Clinica ortopedica presso l’Università di Padova, una sede priva di cattedra e di struttura assistenziale. Andava comunque a occupare un posto dal marchio prestigioso, essendo stato del suo maestro Francesco Delitala, prima, e di Oscar Scaglietti, poi. Il prof. Carlo Pais si sobbarcava volentieri, due volte la settimana, la trasferta da Bologna, portandosi dietro borse piene di documenti didattici, di radiografie, di foto, di disegni, anche di filmati (una raffinatezza, questa, che trasformò in consuetudine); era la sua maniera di affrontare un argomento, con uno stile di linguaggio chiaro, pratico, non pesantemente dottrinale.
Il ritiro in pensione di Delitala per raggiunti limiti d’età, nel 1953, era destinato inevitabilmente a segnare una svolta nel cammino di Pais, che nel frattempo aveva raggiunto il posto di primario effettivo e in più occasioni aveva sostituito il direttore nei suoi periodi di assenza. Forse aveva fatto anche un pensierino alla successione, ma le regole universitarie e l’antica tradizione dell’istituto bolognese gli negavano ogni illusione. Spettava a Raffaele Zanoli, allievo di Putti e direttore effettivo di Clinica ortopedica a Genova, assumere la direzione del Rizzoli; a Pais, uscito primo ternato da un concorso per cattedra, non restava che prendere il posto di Zanoli, raggiungendo comunque la vetta delle sue aspirazioni.
Quando inaugurò l’anno accademico ’54-’55, l’aula ad anfiteatro dell’Istituto “Giannina Gaslini” di Genova non riuscì a contenere la folla di autorità, docenti universitari, medici, che erano convenuti per assistere all’evento. A testimoniarlo è una foto, nella quale a malapena si distingue l’elegante figura del prof. Pais – ritto davanti al leggio, il contegno di sempre – mentre espone la sua prolusione su “Le alterazioni del ritmo dell’accrescimento osseo”; tema e contenuto di alto profilo scientifico, oltre che di grande interesse pratico, preludio al successo che avrebbero poi riscosso le sue lezioni agli studenti, sempre più numerosi e appassionati.
Si è già detto dell’oneroso impegno che si trovò ad affrontare, una volta approdato in Liguria. Libero da vincoli di famiglia, avendo vissuto sempre da scapolo, e da occupazioni che potessero in qualche modo distrarlo dal lavoro (al massimo, si rifugiava qualche ora a dipingere), la giornata era interamente dedicata alle molteplici attività che comportava il suo ruolo; o, meglio, che lui riteneva facessero parte dei suoi doveri. Una spola continua tra l’Istituto Gaslini e l’Ospedale San Martino, qualche puntata a Pietra Ligure; giro in corsia, sala operatoria, ambulatori, didattica, da una parte e dall’altra. Chi gli fu accanto racconta che visitava pazienti senza praticamente conoscere tregua, e spesso senza pretendere alcun compenso, lui che aveva ben conosciuto le fatiche della povertà; ne uscivano tutti con un indirizzo sicuro o una parola di conforto, qualcuno anche con una offerta in denaro.
Tra le tante eredità raccolte da Zanoli, c’era pure la direzione di una rivista, “La Clinica Ortopedica”, che era un po’ la voce scientifica dell’ortopedia genovese. Pane per i suoi denti. Ne divenne il promotore, più che il direttore, allargando i confini geografici di divulgazione e soprattutto stimolando i propri allievi ad arricchirla di nuovi contributi. Allo stesso modo, attiva e numerosa voleva che fosse la partecipazione ai congressi, per farla proprio sentire quella “voce di scuola”. Intransigente con i suoi subalterni, a volte imperscrutabile, gli bastavano poche parole per un richiamo o per l’assegnazione di un compito. In fondo, da loro pretendeva – né più né meno – ciò che lui aveva sempre preteso da sé stesso. Ma chi aveva la voglia e la costanza di seguirlo non poteva che trarne beneficio.
Mille pagine da sfogliare, come un dono
Fin qui il trascorso del professionista che si era meritata l’elezione a presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, e che alla sua prima uscita ufficiale sotto questa veste – nell’autunno del 1957 – aveva presentato all’assemblea la realizzazione dell’Indice Bibliografico; un’opera editoriale inedita, di sicura utilità per tutti gli specialisti italiani, come a volere ricambiare in maniera tangibile la fiducia che gli era stata accordata.
La felice intuizione si era materializzata in un volume di un migliaio di pagine (947 per l’esattezza), con più di venti mila voci tra nomi comuni e nomi propri. Impaginazione secondo un ordine alfabetico, con voci e sottovoci riguardanti, ad esempio, ora una regione anatomica (anca, ginocchio), ora una patologia (epifisiolisi, agenesia), ma anche un autore o un eponimo, un termine tecnico (necrosi), uno strumento (nastro), un semplice materiale (acciaio), persino una città o una nazione (dove la tale ricerca era stata condotta). Insomma, tutto quello che di indicativo si poteva trovare nel titolo di una pubblicazione, e che poteva rendere quanto più agevole e dettagliata una consultazione. Oggi parleremmo di keywords.
Il materiale raccolto era aggiornato a tutto il 1956, e proveniva da sedici riviste italiane che trattavano esclusivamente o prevalentemente argomenti delle specialità ortopedica e traumatologica, o anche atti di congresso e monografie; il tutto, come detto, esteso agli ultimi cinquant’anni. Tra le riviste, ne ricordiamo alcune che rappresentavano in qualche modo anche l’insegna delle rispettive sedi di pubblicazione: l’Archivio di Ortopedia (Milano), La Chirurgia degli Organi di Movimento (Bologna), Ortopedia e Traumatologia dell’Apparato Motore (Roma), Archivio di Chirurgia Ortopedica e di Medicina (Pietra Ligure), Archivio dell’Ospedale al Mare (Venezia), La Clinica Ortopedica (Genova), Minerva Ortopedica (Torino), Archivio Putti (Firenze), Acta Orthopaedica Italica (Reggio Calabria).
Nell’aula magna universitaria che ospitava il congresso romano, e nelle sale attigue, fu subito manifesto da parte dei soci l’interesse col quale si cominciò a sfogliare quel libro. Tutti ebbero la sensazione di avere per le mani uno strumento di ricerca del quale – da allora in avanti – non si sarebbe potuto più fare a meno.
Con la stessa modestia mostrata nel rivolgersi all’assemblea, Pais si era limitato a sottoscrivere solo una breve premessa al testo, precisando contenuti e finalità. Poche frasi, con le quali aveva peraltro colto l’occasione di ringraziare per la «cortese collaborazione» le redazioni delle varie riviste citate, e di sottolineare con «particolare riconoscenza» la fatica dei suoi allievi per il lavoro di raccolta e stesura: primo fra tutti Giovanni Galli, e poi anche Giuseppe Canepa, Mario Garcia, Cesare Sanguinetti. Era l’unica concessione ai meriti suoi e della Clinica da lui diretta. Sulla copertina, la dicitura “Pubblicato a cura del Comitato Direttivo Permanente” sotto il titolo “Indice Bibliografico Italiano di Ortopedia e Traumatologia”, mostrava il chiaro intento di escludere ogni individualismo. Peraltro, era stato lo stesso Pais a sostenere le spese di impaginazione e di stampa, senza gravare sul bilancio della Società.
Un dono. Ecco il significato che sembrò assumere quell’atto, e che purtroppo come tale sarebbe stato presto tramandato. Il contegno assunto da Pais davanti all’assemblea non aveva probabilmente mascherato soltanto la sua inconfessata timidezza, ma anche la sofferenza per quel male che da tempo gli covava dentro. Aveva già una volta affrontato il travaglio di un primo intervento chirurgico, per l’asportazione di una massa tumorale alla vescica. L’abitudine a superare ostacoli e la sua silenziosa caparbietà lo avevano riportato in pieno vigore, operoso nelle sue interminabili giornate, lo sguardo sempre proiettato verso nuovi traguardi. Ma proprio nel settembre del ’57, pochi giorni prima del suo debutto da presidente in un congresso SIOT, erano ricomparsi i segnali di una ricaduta.
A risentire le ultime parole rivolte ai colleghi nel suo discorso inaugurale, si avverte proprio la sensazione che lui fosse in qualche modo già consapevole dell’amaro destino al quale sarebbe andato incontro da lì a poco: «Qualora l’indice risulti utile mi auguro che nei prossimi anni venga periodicamente aggiornato e migliorato, e a seguito di giuste critiche, fin quando sarà realizzata l’auspicabile riunione di tutte le riviste di ortopedia e traumatologia in unica e completa edizione». In quel «venga periodicamente aggiornato e migliorato» c’era l’invito ad altri, l’implicita esclusione della propria persona. Un dono, per l’appunto, lasciato in eredità.
Il peggioramento stavolta gli lasciò solo pochi mesi di autonomia. Con rinnovato coraggio e incrollabile fede divina – lui cattolico fervente, che a Dio si rivolgeva anche prima di entrare in sala operatoria – si sottopose a un secondo intervento chirurgico, che ben presto si rivelò quanto mai illusorio. Nei primi mesi del ’58, il suo fisico non resse più all’inesorabile avanzata del male, e altro non poté fare che ritirarsi nella sua dimora genovese, la villetta sugli scogli di Quarto nelle vicinanze dell’Istituto Gaslini. Per sei lunghi mesi si chiuse solitario nella sua stanza, restio a mostrare il suo corpo sfigurato e il suo volto sofferente per i lancinanti dolori. A fargli compagnia rimaneva solo il rumore delle onde che si infrangevano sulla riva, mentre la distesa del mare si restringeva sempre più nel suo campo visivo. Esalò l’ultimo respiro in una calda giornata di piena estate, il 21 luglio del 1958. Aveva solo 48 anni!
Quante cose avrebbe ancora potuto fare! Quante gratificazioni avrebbero ancora ricompensato la sua intraprendenza e il suo duro lavoro! La prima l’avrebbe sicuramente raccolta pochi mesi dopo, in ottobre, quando a Padova, l’amata città dei suoi studi universitari e dei suoi esordi accademici, era in programma il 43° Congresso SIOT; tema di relazione i trapianti ossei. Si sarebbe ripresentato nella autorevole veste di presidente della Società, avrebbe sicuramente trovato modo di compiacersi – sforzandosi magari di nascondere il proprio orgoglio – del consenso unanime che aveva già riscosso l’Indice Bibliografico da lui promosso.
Quel congresso si rivelò, piuttosto, una sorta di solenne commemorazione. Il suo nome echeggiò già al momento della inaugurazione, quando il prof. Sandro Marconi, primario ortopedico dell’Ospedale al Lido di Venezia, iniziò il suo discorso: «Eminenza, autorità illustri, colleghi, signore e signori; per la recente scomparsa del nostro Presidente, tocca oggi a me quale vice-presidente l’onore di porgervi il saluto della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia…». Più intime e accorate le parole del prof. Delitala, nel ricordare il «figliolo spirituale», «l’amato discepolo sparito dalla scena del mondo»; dopo averne ripercorso le tappe di vita e di carriera, così concludeva: «Udremo fra poco centinaia di giovani che tratteranno un argomento a te caro, ma tacerà la tua voce. Nel silenzio rimpiangeremo di non udire il tuo giudizio acuto e sereno, espressione di una mente affinata dallo studio severo, di un cuore aperto e pronto a lenire i dolori umani». Per onorare la memoria del suo allievo avrebbe poi coniato una delle sue tante medaglie di bronzo.
In effetti, fu proprio il tema principale del congresso a rendere maggiormente omaggio – seppure involontariamente – alla memoria del presidente. Sui trapianti ossei, Carlo Pais aveva più volte presentato comunicazioni e pubblicazioni, ma soprattutto relazionato a un congresso della Società Italiana di Chirurgia, con uno “stato dell’arte” che poteva considerarsi la continuazione e l’aggiornamento di quanto già esposto dai primi grandi maestri del Rizzoli, Alessandro Codivilla nel 1909 e Vittorio Putti nel 1912. Già allora, era il 1952, aveva avuto l’opportunità e il merito di esaminare ben 2000 trapianti, e di formulare, su questa ampia casistica, solidi princìpi di trattamento.
Quando nel 1956 a Bologna – con due anni di anticipo, secondo la prassi di allora – era stato approvato come tema del congresso del ’58 quello dei trapianti ossei, il prof. Pais era ancora nel pieno del suo fervore operativo alla direzione della Clinica ortopedica di Genova, alla quale venne affidata una parte della trattazione. Cominciò quindi a stimolare i suoi allievi allo studio dell’argomento, al reclutamento dei pazienti, alla ricerca di nuove acquisizioni.
La sua scuola lo avrebbe poi onorato nel migliore dei modi. A Padova, infatti, le relazioni di Silvano Mastragostino e di Ernesto Agrifoglio, rispettivamente sui trapianti omoplastici e su quelli eteroplastici, furono apprezzate da tutti, per la chiarezza di esposizione, per il numero dei casi trattati (più di 150 nella esperienza ligure, in entrambi i tipi di trapianto), per le «conclusioni misurate e convincenti», proprio com’era nello stile del loro maestro da poco scomparso. E come se non bastasse, un consistente apporto al buon nome della Clinica genovese venne dalle tante comunicazioni sul tema, da parte di altri allievi: Olindo Baruffaldi, Gian Carlo Fares, Cesare Sanguinetti, Giovanni Marcacci, Nello Divano, Giancarlo Berardi, Pietro Chiappara, Mario Garcia, Francesco Marotti, Emanuele Rinonapoli, Cesare Villani, Giuseppe Lanfranconi, Carlo Giomi, Flavio Granato, Livio Panelli, Andrea Chiapuzzo, Vincenzo Peruzzini.
L’eredità in mano alla scuola genovese
Chissà quale vantaggio pratico aveva già fornito l’Indice Bibliografico, pubblicato l’anno prima, per la stesura delle relazioni e delle numerose comunicazioni presentate in quel congresso? Fu in quello successivo, però, che l’impresa editoriale di Pais venne elogiata e celebrata per come meritava. Se ne fece promotore Leopoldo Giuntini, suo successore sia alla direzione della Clinica ortopedica di Genova che alla presidenza della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia. In entrambi i ruoli sentì il dovere di continuarne l’opera, e soprattutto di perseguirne gli auspici. Il 23 ottobre del 1959, nella seduta inaugurale del 44° congresso della SIOT, a Roma, Giuntini dichiarava: «Il consiglio direttivo della nostra Società ha ritenuto opportuno continuare la pubblicazione di quell’indice bibliografico italiano, rivelatosi di tanta utilità per i nostri studi, che, in memoria del suo illustre fondatore e mio indimenticabile predecessore, porterà d’ora in poi il nome di Carlo Pais».
Prendeva così il definitivo avvio la stampa periodica di uno degli archivi più consultati per lo studio delle patologie muscolo-scheletriche, uno di quelli che – si può ben dire – avrebbero accompagnato per mano il progresso della specialità in Italia nella seconda metà del secolo scorso. Giuntini aveva di buon grado raccolto a Genova tutte le eredità lasciate da Pais, pur provenendo dalla sede di Siena e aver fatto parte di scuole diverse (Milano e poi Firenze); e nel segno della continuità, si era avvalso della collaborazione da parte di allievi già avvezzi al lavoro in campo scientifico. Tra questi, i già citati Giovanni Galli e Giuseppe Canepa, ai quali venne affidata la redazione del primo aggiornamento dell’Indice. Nel 1959 uscì quindi il secondo volume (per il biennio ’57-’58), e da allora la cadenza biennale venne mantenuta per successivi diciotto volumi.
Fu sempre la Clinica ortopedica di Genova a farsi promotrice della pubblicazione, mostrando un senso di appartenenza mai affievolitosi col tempo. Si sono avvicendati direttori (dopo Giuntini, Ernesto Agrifoglio dal 1971, e poi Francesco Pipino dal 1993), e con loro i vari collaboratori incaricati di svolgere il lavoro di ricerca bibliografica e di redazione del testo. Nell’era-Giuntini, oltre a Galli e Canepa, Giancarlo Berardi, Giorgio Cattani, Ugo Orestano, Giorgio Pinelli; nell’era Agrifoglio, il compito se lo assunse soprattutto Franco Picchetta, che curò la redazione di ben dodici aggiornamenti (dal 9° del ’73 al 20° del ’95), entrando così anche nel periodo iniziale di reggenza di Francesco Pipino, che di Carlo Pais era stato uno degli ultimi assistenti.
Spirito e scopo della pubblicazione erano sempre gli stessi. Piuttosto, si allargava di volta in volta il campo di raccolta degli articoli e degli autori da citare, anche per l’affermarsi di nuove riviste. Tra le altre, l’Archivio dei Centri Traumatologici Ortopedici INAIL, la Rivista degli Infortuni e delle Malattie professionali, La Ginnastica medica, la Rivista di Chirurgia della Mano, gli Atti dei congressi della SIOT, della SERTOT, della SOTIMI, Lo Scalpello organo dell’OTODI. Ovviamente, erano volumi di dimensioni ridotte (intorno alle 200 pagine) rispetto a quello iniziale, in quanto si trattava solo di aggiornamenti riferiti all’ultimo biennio.
L’Indice Bibliografico aveva in qualche modo riscattato la prematura scomparsa del suo ideatore. Il nome di Carlo Pais continuò a risuonare per molti anni nelle sale studio e nelle biblioteche degli istituti ortopedici. Le pagine del volume a lui intitolato scorrevano in maniera metodica e disinvolta tra le mani di tutti coloro che avevano in mente di scrivere un lavoro scientifico, o anche soltanto di documentarsi su un determinato argomento. Forse troppo disinvolta per avvertire il bisogno – specie se di anni ne erano trascorsi – di fermarsi un attimo a chiedersi chi fosse davvero il personaggio a cui quel nome apparteneva. E comunque, quell’Indice bisognava assolutamente consultarlo! Altrimenti rischiavi che il tuo direttore ti facesse riscrivere un articolo prima di dare il placet per pubblicarlo, oppure che qualche collega ti ammonisse pubblicamente, in una sala di congresso o sull’appendice di una rivista, per non avere citato il suo preesistente contributo.
L’avvento di internet era destinato a soppiantare – e a relegare negli angoli bui delle librerie – un’opera così ponderosa. Presto sarebbero bastati un motore di ricerca, un paio di parole chiave e un clic sul mouse per far venire giù un’autentica pioggia di fonti bibliografiche, provenienti dalla letteratura del mondo intero; tutto fin troppo semplice davanti a un computer, se mai anche troppo vasto e dispersivo senza indicare intervalli di tempo o altri termini MeSH. Ma si sa, ogni epoca ha i suoi strumenti; e i suoi eroi.
Rispolverare l’Indice Bibliografico è stato – se vogliamo – solo un pretesto per ridare la giusta luce alla figura di Carlo Pais. Avremmo potuto ricordarlo per tante altre sue virtù e opere. Per esempio, quella di essere stato un promotore, nel 1952, della Società Italiana di Ginnastica Medica, nata con lo scopo di riunire i cultori di una pratica che – per quanto ritenuta da tutti indispensabile – aveva bisogno di scrollarsi di dosso empirismo e improvvisazione. L’organo ufficiale “La Ginnastica Medica”, pubblicato a partire dall’anno dopo, diede appunto l’impronta di una conquistata dignità scientifica. Pais fu il primo presidente della neonata società, ma soprattutto fu tra i primi fautori del legame indispensabile che doveva instaurarsi tra ortopedici, pediatri e insegnanti di ginnastica; particolarmente coinvolgenti, in questa sua azione divulgativa, risultarono le raccomandazioni su diagnosi, prevenzione e cura della scoliosi nell’adolescenza.
Un altro aspetto da elogiare riguardava la sua inventiva e la sua abilità in sala operatoria. Lui non aveva un talento chirurgico innato; se lo era in gran parte costruito da solo, esercitandosi a lungo in sala settoria, e continuando a farlo anche quando aveva raggiunto posizioni apicali. Così riusciva a intervenire con mano sicura, ma senza esibizioni, se mai attanagliato dall’ansia di rendere ogni gesto essenziale ed efficace. Sull’insidioso terreno della colonna vertebrale aveva raggiunto livelli di eccellenza, tant’è che il prof. Delitala, ai tempi del Rizzoli, gli aveva affidato il caso della propria figlia, affetta da un tumore rachideo. Tra le tecniche originali escogitate da Pais, vanno ricordate la “derotazione della gamba utilizzando il piede come flessore del ginocchio nelle assenze congenite del femore” e la “fissazione percutanea della lussazione acromion-claveare” mediante un particolare dispositivo a compasso con filo-guida.
Era anche dotato, tuttavia, di un notevole spirito di emulazione; e qui aveva avuto la fortuna di crescere al fianco di grandi personaggi oltre a Delitala: Enzo De Marchi a Venezia, Oscar Scaglietti, Calogero Casuccio, Augusto Bonola al Rizzoli (tanto per citarne solo alcuni). Molto proficuo, a tal proposito, si era rivelato pure l’anno di frequenza a Parigi (1946), nella Clinique des Enfants Malades diretta dal prof. Jacques Leveuf e nel laboratorio di chirurgia sperimentale del prof. René Leriche.
Apprendere, imitare, insegnare. Su questi tre cardini si fondava la sua missione. E sempre restando in tema di interventi operatori, strumento più istruttivo non poteva esserci della proiezione pubblica di un filmato dal vero. In questo campo Pais fu davvero un precursore, impegnandosi ancora una volta da autodidatta, con mezzi e attrezzature di sua proprietà; riprendeva o faceva riprendere con pellicole da 16 mm, occupandosi personalmente della regia. Una trentina i film prodotti, tra il periodo rizzoliano e quello genovese. Non la sterile ostentazione di un atto manuale, ma la storia clinica di un paziente, ritratto prima e dopo, proprio per far comprendere quali potevano essere le risorse della chirurgia ortopedica e come andavano impiegate. Seguendo la sua onestà, la sua tendenza all’autocritica, il suo tormento quasi nel risolvere sempre nuovi problemi, Pais sosteneva che «…il film chirurgico deve insegnare soprattutto al chirurgo che ha eseguito l’intervento. Rivedersi nelle manovre per analizzarsi, correggersi».
In possesso di ben quattro diplomi di specializzazione (in Medicina legale, in Radiologia, in Ortopedia e in Chirurgia generale) la sua cultura scientifica era praticamente sconfinata, al pari della sua memoria. Eppure, preparava sempre con estrema cura ogni sua presentazione in pubblico, che fosse un intervento in un congresso internazionale o una lezione ai propri studenti, momenti che lo emozionavano e lo gratificavano in egual misura. La relazione alla SICOT di Amsterdam, nel 1947, sul trattamento chirurgico dei traumi chiusi del rachide, spalancò le porte della sua notorietà all’estero; dove peraltro si era affacciato con alcune interessanti pubblicazioni in lingua francese, delle 120 che in totale poi diede alle stampe. Tutto quello che lasciava scritto era stato da lui veduto e vissuto. Tra i tanti argomenti trattati, mostrò un interesse particolare per tumori ossei, pseudoartrosi congenite, ernie del disco, compressioni midollari, endoprotesi; e ovviamente anche per fratture e lussazioni.
Con le lesioni scheletriche, l’approccio più formativo lo aveva avuto in Africa settentrionale nel corso della Seconda guerra mondiale, come sappiamo. Al primo congresso post-bellico della SIOT, nel ’46 a Firenze, la sua relazione sulle fratture articolari esposte si basava in buona parte sulla recente casistica di guerra.
Meno drammatiche, ma sicuramente più propagandate, furono le lesioni scheletriche che si trovò a curare per il suo paziente forse più famoso, Fausto Coppi. Una prima volta nel giugno del 1950, chiamato in consulenza all’Ospedale Santa Chiara di Trento, dove il Campionissimo era ricoverato per una frattura del bacino a causa di una caduta dalla bici in una tappa del Giro d’Italia. La seconda volta nell’agosto del ’52, al Rizzoli di Bologna, dove Coppi si recò più volte per una frattura di clavicola, capitatagli sulla pista di Perpignano, all’indomani del suo secondo trionfo al Tour de France. Ci sarebbe stata anche una terza volta, nel 1957. Coppi aveva riportato una frattura del collo del femore in un circuito in Sardegna; dopo essere stato ricoverato all’Ospedale di Sassari e ingessato con un apparecchio pelvi-pedidio, aveva fatto ritorno nella sua nuova casa di Novi Ligure (quella condivisa con Giulia Occhini, la “dama bianca”), e da qui aveva chiesto un consulto a domicilio al Prof. Pais – nel frattempo trasferitosi nella vicina Genova – per decidere sull’opportunità di un eventuale trattamento chirurgico. Sennoché Pais, erano i primi di marzo, proprio in quei giorni si era sottoposto al primo atto operatorio per il suo tumore alla vescica, e quindi l’incontro non avvenne.
La recidiva e l’aggravarsi dello stesso tumore, da lì a poco più di un anno, avrebbe fatto crollare ogni suo progetto. Uno di questi aveva cominciato a prendere forma, e riguardava la fondazione di un Istituto Ortopedico Ligure che doveva riunire in una grande e nuova struttura la Clinica ortopedica per adulti e bambini…
Chissà a quanti altri sogni negati ripensò in quelle lunghe giornate di agonia? Ma sul punto di morte, quando volle mostrarsi per l’ultima volta ai suoi allievi, e salutarli uno ad uno, pronunziò serenamente queste parole: «Tra poco morirò; ma sono contento. Dalla vita ho avuto quello che ho voluto, vi ringrazio della vostra collaborazione. Continuate a lavorare assiduamente per alleviare le pene dei sofferenti. Lavorate molto, lavorate coscienziosamente, lavorate col cuore. Nel darvi l’ultimo saluto, auguro ogni bene a voi e alle vostre famiglie. Ci rivedremo tra cinquant’anni, forse, o sessanta…».