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Storia dell'Ortopedia

Fascicolo 4 - Dicembre 2023

Pallottole, ferite e chirurghi eroici: cronaca della Spedizione dei Mille!

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Publication Date: 2023-12-19

Camillo Benso conte di Cavour, amministratore delegato del Regno di Sardegna, visto che le casse dello stato si erano svuotate con la Guerra di Crimea e il fallimento era imminente, propose a Vittorio Emanuele II di “rubare” le Due Sicilie ai legittimi proprietari, i Borbone. Avuto il consenso degli inglesi, ingaggiò il migliore capitano di ventura che il mercato offriva in quel momento, Giuseppe Garibaldi; questi parlò con mille persone che la pensavano come lui, le armò fino ai denti di coraggio ed entusiasmo più che di armi e, a bordo di due piroscafi a vapore, puntò sulla Sicilia, sbarcò a Marsala e si diresse su Salemi. Qui l’Amministrazione comunale, su consiglio – che non poteva essere rifiutato – di Francesco Crispi, invitò Garibaldi ad assumere la Dittatura «in nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia» (che in quel momento re d’Italia non era, ma di Sardegna), allo scopo di giustificare la loro invasione, perché d’invasione si trattava, davanti al mondo allora conosciuto.

Venne dato così il via alla storica “Epopea dei Mille”, che avrebbe portato alla formazione dell’Unità d’Italia. Come è logico che sia, per vincere una guerra bisogna fare le battaglie e la prima, in questa impresa, la più cruenta e decisiva, si rivelò quella di Calatafimi (15 maggio 1860), che più precisamente ebbe luogo in una località nei pressi del paese, chiamata “Pianto Romano”.

Questo non era il luogo dove andavano a piangere i Romani… In dialetto siciliano la parola «chianti» si traduce con «vigneto giovane, appena piantato»; quella zona veniva chiamata «i chianti Romano, o di Romano» a indicarne forse il nome del legittimo proprietario; oppure, stando ad altra versione, indicava una vecchia tecnica utilizzata dai contadini della zona per piantare il vigneto, “impianto alla romana” con disposizione dei filari in obliquo a formare delle losanghe. Gli storici nel nord che seguirono Garibaldi tradussero la parola dialettale «chianti» con «pianti» (sostantivo al plurale di pianto, da piangere) e da lì la storpiatura “Monte del pianto dei Romani”, come lo definì con precisione il Capuzzi, uno dei garibaldini che si dilettava a scrivere un diario. In realtà su quella collina, quel giorno, pianse tanta gente!

Più che una battaglia, protrattasi per circa quattro ore a partire da mezzogiorno, fu una baruffa, una scazzottata. Volarono parolacce, incitamenti, insulti e bestemmie; volarono più sassi che pallottole, e alla fine furono contati tra i garibaldini una trentina di morti e 180 feriti, alcuni anche gravi, che morirono dopo qualche giorno per le complicanze: shock emorragico, infezioni e gangrene.

Al seguito, Garibaldi aveva un’ambulanza diretta dal dr. Pietro Ripari, che “in organico” contava solo un aiuto, Cesare Stradivari. Della mancanza di personale medico, il Ripari si era lamentato con il Colonnello Giuseppe Sirtori a cui Garibaldi, partendo da Quarto, aveva affidato la delega di “Ministro della Salute”.

Sbarcati che furono a Marsala, al Ripari si unì un certo dr. Vincenzo Maltese; la fonte e la notizia sono sicure ma di questo medico nessuno, tra gli storiografi che seguirono Garibaldi, ne fa cenno. A Salemi si aggregarono: Ignazio Lampiasi, medico di grandi capacità umane e professionali, che si era formato all’Università di Palermo ed era stato per parecchio tempo a Berlino nella Clinica medica; uno studente in medicina, Gaetano Corleo; un infermiere, Sebastiano Titolo. In più, un altro personaggio che dette manforte al Pronto Soccorso fu tale Gaspare Scaduto, un medico “vagabondo”, di Vita, il vicino paese da cui era originario e dove in quel periodo si trovava; era costui un medico molto pratico di medicina di guerra, perché nel ’48 aveva partecipato alle battaglie irredentistiche in Lombardia.

Il P.S. fu organizzato dal Ripari proprio in questo paesetto, Vita, nel convento di San Francesco. Complessivamente, la mattina del 15 maggio, l’organico sanitario era composto da sei medici, due di ruolo e quattro volontari, e cinque infermieri, tutti volontari. In più i portantini, che erano gli stessi soldati che si prestavano a questo servizio, in caso di necessità.

Tre casi clinici in archivio storico

1° caso

«Il Capitano Augusto Elia vide il Generale camminare a 50 passi dalla posizione nemica quando s’accorse che uno dei cacciatori regi prendeva di mira la camicia rossa del Generale ed egli in un salto gli si parò davanti, appena in tempo per ricevere lui stesso il proiettile che lo colpì alla bocca. Garibaldi si chinò commosso da tanta devozione, a consolare affettuosamente il suo salvatore caduto, e lo rivoltò bocconi, onde il gran sangue non l’avesse a soffocare, dicendogli con amorosa dolcezza: “Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore!”.

Ed infatti questi non morì e poté per moltissimi anni mostrare con giusto orgoglio un biglietto di Garibaldi: “Certifico che Augusto Elia fu mortalmente ferito a Calatafimi mentre mi copriva del suo corpo”. Bixio invece, a chi gli disse che l’Elia aveva avuto un proiettile in bocca, rispose secco: “E che lo sputi fuori!”».

Diagnosi

Ferita alla parte sinistra della bocca con frattura da scoppio della mandibola e avulsione di numerosi denti. La pallottola attraversò il collo, senza ledere strutture vitali, fermandosi sotto il muscolo trapezio.

Trattamento

Il ferito ricevette il primo trattamento nella casa privata di Baldassare Leone che in quell’occasione si era trasformata in ospedale. In questa casa «regnava sovrana la carità e la nobiltà d’animo della moglie, signora Caterina Farina» come ebbe a ricordare lo stesso Capitano Augusto Elia il 27 maggio del 1903 in una riunione di ex garibaldini al Politeama di Palermo. «I tamponi, introdotti per fermare l’emorragia, venivano cambiati ogni mattina con delicatezza; venivano fuori coaguli, denti e frammentini d’osso».

La pallottola «gli fu strappata» nell’Ospedale di Salemi dal dr. Lampiasi attraverso un’incisione cutanea alla spalla, quando le ferite alla bocca si chiusero lasciando una profonda e deturpante cicatrice al volto con difficoltà ad alimentarsi e impossibilità di parlare.

Evoluzione clinica

Elia mascherò la deturpazione facendosi crescere la barba e quelle rare volte che lo vollero fotografare offrì sempre il lato destro del volto. Ultimata la guerra, si trasferì a Bologna e si sottopose alle cure del dr. Francesco Rizzoli che in tre anni e diversi interventi riuscì a dargli un aspetto estetico decoroso, una buona funzionalità della masticazione e a farlo parlare in maniera comprensibile.

2° caso

«Francesco Montanari venne colpito da una pallottola riportando la frattura comminuta ed esposta del femore e del ginocchio, lesione che richiese l’amputazione».

Quello che resta della cartella clinica viene racchiuso in queste poche parole di Giuseppe Marino Oliveri, un medico che dal 20 giugno 1860 fu chiamato a dirigere l’Ospedale di Salemi, dove curò tutti i feriti che subito dopo la battaglia erano stati ricoverati a Vita: «Ferita alla coscia e, fatta l’amputazione, miseramente se ne morì». L’amputazione fu fatta dal dr. Lampiasi e il Marino non era presente; il caso clinico, anche se occorso un mese prima del suo insediamento, al Marino era stato raccontato.

Notizie certe sul tipo della frattura e sulla evoluzione clinica non se ne hanno. Qualcuno, trattando l’argomento, ha supposto che l’amputazione fosse stata eseguita subito per la forte perdita di sangue; qualche altro, come Antonino Riggio (un «picciotto» che si era unito ai «Mille»), scrisse anche lui per supposizione che la ferita andò in gangrena e l’amputazione si rese necessaria a distanza di alcuni giorni. È molto probabile la seconda ipotesi: un’amputazione a distanza di qualche giorno per sopravvenuta infezione, amputazione su un soggetto fortemente anemizzato.

3° caso

Vittima, il Tenente Colonnello Achille Maiocchi. Era nato a Milano nel 1821; si diceva che fosse un anarchico non violento. Fu deputato alla Camera del Regno d’Italia per cinque legislature dal 1874 al 1890; morì a Torre d’Isola, nei pressi di Pavia, nel 1904.

Dalla cartella clinica dell’Ospedale San Francesco di Vita, leggibile solo in parte per cattiva conservazione, risulta:

Anamnesi patologica prossima

«Il Tenente Colonnello Achille Maiocchi riferisce che questo pomeriggio, attorno alle ore 15, mentre si inerpicava sul costone di una collina nel tentativo di impossessarsi della sua cima occupata dal nemico, ha accusato dolore improvviso, trafittivo alla parte media del braccio sinistro cui seguiva impotenza funzionale. Soccorso, è stato qui accompagnato dal sig. Scaduto».

Esame obiettivo

«Sulla faccia anteriore del braccio sinistro, al 3° medio si nota una ferita, foro d’ingresso di pallottola con foro d’uscita alla faccia posteriore, allo stesso livello. Impotenza funzionale dell’arto».

Evoluzione clinica

Il paziente fu trasferito dall’Ospedale di Vita a quello di Salemi, ritenuto più idoneo e attrezzato per il proseguimento delle cure. E «…di lì a giorni», come riferisce l’Agrati senza precisarne quanti ne trascorsero con esattezza, fu operato dal dr. Lampiasi, di amputazione del braccio.

Il dr. Ignazio Lampiasi aveva appena compiuto 27 anni, era ancora molto giovane, ma aveva già una certa esperienza maturata – come già detto – in ambienti di prim’ordine, l’Università di Palermo e quella di Berlino.

Ci si chiede quale fu il motivo che condusse all’amputazione. Si trattava di una frattura complessa e complicata con lesioni vascolo nervose? Di una infezione conclamata della ferita? Oppure l’indicazione si basava solo sulla necessità di prevenire l’infezione, all’epoca frequentissima nelle ferite d’arma da fuoco?

Lo stesso operatore, il dr. Lampiasi, seguì l’operato nel post-operatorio fino al 20 giugno, giorno in cui gli venne affidata la direzione dell’Ospedale di Trapani, per nomina diretta di Giuseppe Garibaldi; a Salemi lo sostituì il dr. Giuseppe Marino Oliveri.

Il post-operatorio fu lungo e all’inizio la ripresa dello stato generale fu lenta, probabilmente per una anemizzazione. La degenza si protrasse per più di due mesi.

Il Maiocchi durante la degenza fu trattato con particolare riguardo; «…al pranzo l’attendevano i più dolci conforti e le bevande più delicate fra le quali prediligeva la cosiddetta lattata della Concezione, preparata dalle oneste fanciulle del conservatorio, vicinissimo al Collegio. Una di queste ragazze, figlia di Gaspare Maggio, apprestava la saporosa bevanda con le rosee mani di fantastica vergine, quale si dipinse alla fantasia del forte guerriero che aveva subìto la grave operazione chirurgica».

Maiocchi aveva 38 anni ed era un bell’uomo e la Maggio, della quale non sappiamo quale fosse stato il suo vero nome (anche se qualcuno ha parlato di Maria), se ne era innamorato; tanto che, si diceva, quando il Maiocchi lasciò Salemi, non volle mai sposarsi per restare fedele a quell’amore che non sappiamo, e mai sapremo, di che tipo fosse stato.

Un’amputazione salvava la vita

L’amputazione dell’arto, in caso di frattura d’arma da fuoco, sul campo di battaglia, era il trattamento d’elezione, metodo sbrigativo e preventivo per evitare infezioni, setticemie e morte.

«Con i proiettili di fucile vedemmo, colle ferite transfosse, gravi e multiple fratture. Il volume delle masse muscolari immediatamente circostanti fu causa delle gravi lacerazioni dei muscoli, veri spappolamenti sui quali si impiantava l’infezione» (Lampiasi). In queste condizioni trovavano facile sviluppo i germi, specialmente quelli anaerobi delle forme gassose.

Il medico che si distinse nella cura dei 174 feriti fu per certo il dr. Ignazio Lampiasi. Impose, per esempio, a tutti i medici ed infermieri che si avvicinavano ai feriti di lavare continuamente le mani con acqua e sapone. Di acqua ne sgorgava a volontà da una fonte a pochi metri dietro al Convento.

Il dr. Lampiasi in un suo quaderno annotò: «Le ferite venivano lavate con acqua pulita e disinfettate con Nitrato d’Argento o con soluzione di Sublimato al 3% farmaci che, data la scarsa quantità in dotazione, si esaurirono in pochissimo tempo. Il dr. Scaduto mi suggerì di lavare bene le ferite prima con acqua e poi col vino; di vino ne trovammo in abbondanza nella cantina del Convento; qualche bicchiere lo bevvi anch’io, senza nascondermi! Anche i feriti ne bevvero con soddisfazione! L’alcol è un buon disinfettante. Le ferite venivano coperte con bende pulite, che non mancavano».

Di sterilizzazione si cominciò a parlare solo nel 1867 con Lister che aveva sperimentato le proprietà antisettiche del Fenolo e poi nel 1891 con il dr. Curt Theodor Schimmelbusch che aveva intuito l’azione battericida della bollitura.

Nel corso della Spedizione dei Mille, molte ferite si infettarono e i morti dei giorni successivi alla battaglia furono tutti conseguenza di questa complicanza o della copiosa perdita di sangue. «Il nostro carissimo amico Ignazio Lampiasi, più che a prendere note badava a salvare e guarire i feriti; e per questo che non ha potuto fornirci ragguagli» (Giuseppe Marino Oliveri). )

Pietro Ripari, il primario dell’Ambulanza Garibaldi General Hospital, si laureò in Medicina a Pavia nel 1827; poi si trasferì a Padova dove studiò Clinica chirurgica ma la sua attività fu per 20 anni quella di medico condotto. Conobbe Garibaldi con il quale si legò di profonda amicizia. Nel 1847 abbandonò l’attività medica per dedicarsi interamente alla causa risorgimentale.

Buon organizzatore di servizi sanitari non aveva grandi doti chirurgiche e nella traumatologia era più praticone che medico, come del resto tutti i medici di allora. Una frattura era di per sé una garantita deformità con danni funzionali importanti: accorciamento dell’arto con deformità assiali, pseudoartrosi, rigidità articolari.

Nei casi di frattura esposta, sui campi di battaglia, l’indicazione era l’amputazione. La morte per sepsi era frequentissima; le statistiche di allora non erano uniformi; in quelle tedesche la mortalità post-operatoria raggiungeva il 70%, in quella inglese il 33%; gli inglesi amputavano precocemente e tempestivamente non erano indecisi come i tedeschi, non tentavano la strada conservativa.

Nel caso del Montanari (caso n. 2) l’amputazione molto probabilmente venne eseguita per sopravvenuta infezione in un soggetto fortemente anemizzato. L’ammalato morì a distanza di qualche giorno dall’intervento.

Nel caso del Maiocchi (caso n. 3) invece possiamo fare solo supposizioni. Fu praticata l’amputazione per prevenire l’infezione? Perché comparvero segni d’infezione sulla ferita? Per frattura complessa e complicata con lesioni vascolo nervose? Quest’ultima potrebbe essere stata la causa principale, una paralisi del radiale: la difficoltà di portare a guarigione la frattura con l’esito di una mano paralitica, inutilizzabile.

Sia nella normalità che sui campi di battaglia, fin quando non comparvero sulla scena le figure di Lister, Böhler, Küntscher e Delitala il trattamento elettivo di molte fratture esposte era l’amputazione dell’arto; il sacrificio della gamba, nell’era pre-antibiotica, mirava a salvare la vita; gli esiti di qualche frattura chiusa, pseudoartrosi, deformità o rigidità articolari, a volte portavano a danni funzionali talmente gravi, oltre che estetici, che la consigliavano se non l’imponevano.

Questa era la traumatologia fino a non molti anni addietro, questa l’indicazione in alcune fratture esposte o nelle pluriframmentarie e complesse!

Figure e tabelle

Giuseppe Garibaldi alla guida della Spedizione dei Mille, nel maggio del 1860; sbarcato a Marsala l’11, tre giorni dopo a Salemi dichiarò “di assumere nel nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia la Dittatura in Sicilia”. (disegno con penna biro, di Edoardo Veneziano)

Il campo della battaglia di Calatafimi (primo scontro con l’esercito borbonico, 15 maggio) in località Pianto Romano; in cima alla collina si intravede la sagoma dell’ossario-museo (riprodotto nell’ingrandimento a destra).

Ritratti di Pietro Ripari e Ignazio Lampiasi, medici impegnati nella Ambulanza al seguito delle truppe garibaldine in Sicilia.

Achille Maiocchi, in piedi a destra, con i segni dell’amputazione al braccio sinistro; qui ritratto assieme a un’altra camicia rossa, Dunyov Istvàn, amputato alla gamba sinistra in seguito a una ferita riportata nell’ultimo scontro con l’esercito borbonico, sul Volturno ai primi di ottobre.

La chiesa di San Francesco a Vita, dove il giorno della battaglia venne allestito un Pronto Soccorso con ricovero. Alla chiesa, ancora esistente, era annesso un convento, che alla fine dell’800 venne abbattuto e poi trasformato in Municipio.

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Vito Surdo - Mirano (VE)

How to Cite
Surdo, V. (2023). Pallottole, ferite e chirurghi eroici: cronaca della Spedizione dei Mille!. Giornale Italiano Di Ortopedia E Traumatologia, 49(4), 190–194. https://doi.org/10.32050/0390-0134-N413
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