Abstract
La storia è piena di ortopedici nati come chirurghi generali. Un destino quasi ineluttabile, se si pensa al rapporto filogenetico tra le due discipline ma anche al desiderio di autonomia dell’una rispetto all’altra. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, si trattava praticamente di un percorso obbligato, come quello compiuto da nomi celebri – da Alessandro Codivilla a Riccardo Dalla Vedova, da Pietro Panzeri a Riccardo Galeazzi –, personaggi in grado di prendere per mano la specialità dedita alle patologie scheletriche, di darle dignità scientifica e di farla uscire dal recinto della casa madre. Più in là negli anni, il cambiamento di rotta avrebbe potuto avere motivazioni più pragmatiche, legate piuttosto alla opportunità di trovare un più agevole sbocco professionale, in un settore ancora in crescita. Dall’obbligo alla necessità, si sarebbe poi passati anche alla scelta virtuosa, come a sancire il raggiungimento della piena emancipazione.
Se la storia ci presenta questo quadro, sorprende constatare che uno dei più grandi chirurghi generali di tutti i tempi abbia percorso il cammino inverso, nascendo – per così dire – come ortopedico. Pietro Valdoni, considerato il caposcuola della moderna chirurgia italiana nel Novecento, circondato da una fama mondiale, ha infatti mosso i suoi primi passi, tra il 1924 e il 1925, nella Clinica ortopedica e traumatologica di Roma. Otto mesi appena di assistentato, ma con un prima (la frequenza come studente interno) e soprattutto un dopo (il continuo interesse per la materia), che messi insieme hanno potuto legittimare un senso di appartenenza alla storia della nostra ortopedia.
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