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Quando si dice il destino! Che Vittorio Putti diventasse il successore di Alessandro Codivilla alla direzione del Rizzoli, che ne ereditasse princìpi e temperamento, e che addirittura lo superasse per fama mondiale, lo si deve a un felice scherzo del destino, una di quelle fatalità in cui luogo, tempo e pretesto hanno bisogno di una perfetta coincidenza. In questo caso è stata determinante anche la presenza di un involontario complice; si è trovato là, al posto giusto e nel giusto momento, tessendo ingenuamente i fili di un incontro occasionale, che avrebbe finito col decidere le sorti dell’istituto bolognese e, in buona parte, dell’ortopedia italiana. Così Augusto Anzoletti si è ritagliato un posto nella storia.
Tutto sarebbe rimasto in un ignoto angolo buio, se il dottor Anzoletti – allievo di Codivilla e collega anziano di Putti – non avesse deciso, alla veneranda età di 82 anni, di abbandonarsi ai ricordi dei tempi andati e di metterli nero su bianco. Ne è venuto fuori un racconto ricco di aneddoti e intriso di sentimenti, che di questi due personaggi, suoi contemporanei, ha svelato curiosità e risvolti umani fino ad allora nascosti dietro la loro autoritaria figura. Quell’incontro voluto dal destino segna proprio l’inizio di una lunga testimonianza, al cui testo originale (che verrà riproposto nei tratti in corsivo) abbiamo voluto affidare la narrazione dell’episodio, per renderla quanto più realistica e coinvolgente.
Quello alto, bello, occhi marroni
S’era ai primi dell’agosto 1903...
Da quattro anni, ormai, Alessandro Codivilla si trovava alla direzione del Rizzoli, trasferitosi da Imola, dove aveva lasciato una pur brillante carriera di chirurgo generale. Alla sua corte si alternavano non più di quattro assistenti. I due maggiori erano Gaetano Sangiorgi, addetto alla sezione chirurgica e a quella radiologica, e Alfredo Mandelli, assegnato alle cure fisiche e al laboratorio. I due assistenti subalterni erano, nei rispettivi settori, Ferruccio Garavini e Augusto Anzoletti.
Sangiorgi era il decano del gruppo, essendo presente già dall’epoca di inaugurazione dell’istituto bolognese (1896), quando a dirigerlo era stato chiamato il prof. Pietro Panzeri, il cui impegno prioritario per l’Istituto dei Rachitici di Milano lo avrebbe poi costretto, dopo meno di tre anni, a declinare il doppio incarico. Anche Mandelli aveva preceduto l’arrivo di Codivilla; il 1° gennaio 1902, invece, era stata la volta dell’ingresso di Garavini e di Anzoletti. Ed è con la penna di quest’ultimo – addestrata a uno stile di scrittura classico, finemente ornato da figure retoriche – che facciamo ripartire il racconto, dall’incipit appena accennato…
S’era ai primi dell’agosto 1903.
Battevano le dodici e stavo uscendo dalla sala della meccanoterapia, quando Codivilla mi venne incontro. Se ho dimenticato come incominciasse il discorso, ricordo invece bene come lo continuò.
Codivilla «Nuovi fastidi. Garavini s’è licenziato e se ne va; il posto di chirurgia spetta a lei, e intanto, di qua, nei reparti di Mandelli, resta il vuoto. Gli ammalati, lo sa come sono, mormorano se in sala non vedono, tra macchine e attrezzi, andare e venire una tonaca bianca, e qui, nel reparto delle cure fisiche, non si trova un disperato che intenda entrare assistente».
Anzoletti «Possibile?» – dissi – «Hanno appena sfornato una sporta di lauree, vuole che tra quei novellini…».
C. «Non è che lo voglia o lo creda: lo so. Mi sono raccomandato a Nigrisoli, a Berti, a Schiassi; ho interessato gli assistenti di Ruggi, di Murri, di Albertoni: zero! Niente, nessuno. D’altronde chi vuole che venga per cinquanta lire al mese e vitto a giorni alterni?».
A. «Ci sono pure venuto io e ci campo anche da un anno e mezzo».
C. «Lei? Lei è fatto a rovescio degli altri».
Tacque, mutammo qualche passo…
Nuovi fastidi… Dal giorno in cui Codivilla aveva ufficialmente assunto la direzione dell’istituto, 1° marzo 1899, si era più volte imbattuto nel problema di reintegrare il personale in tonaca bianca. Giuseppe Monti aveva trovato più conveniente andare a dirigere la Società Ginnastica di Torino, facendo avanzare al suo posto il subalterno Mandelli. La strada in uscita era stata poi imboccata anche da altri (in successione Alessandro Fochessati, Luigi Tabboni, Alessandro Zoppi), ed era trascorso del tempo prima che il vuoto venisse colmato dalle assunzioni di Anzoletti e dello stesso Garavini, ultimo della lista ad annunciare il suo licenziamento.
Fastidi sì, perché in quel periodo, al Rizzoli, i posti-letto su cui vigilare ammontavano a 160 unità; sicché nei reparti di degenza, in sala operatoria e nei servizi (palestra, gabinetto di radiologia, officina), era necessario marciare a pieno regime; e c’era anche un ambulatorio di città – per risparmiare all’utenza l’inconveniente di raggiungere il colle di San Michele in Bosco – che per cinque giorni su sette doveva garantire le visite specialistiche, ma anche piccole prestazioni, confezione di apparecchi gessati, cure fisiche. Insomma, bastava una presenza medica in meno per rendere insostenibile una attività che metteva già a dura prova con un organico appena sufficiente.
La neonata disciplina ortopedica, evidentemente, non aveva ancora raggiunto la dignità di una occupazione pienamente gratificante, sia dal punto di vista professionale che da quello economico. E persino in un istituto come il Rizzoli, dall’alto della sua magnificenza, si faceva fatica a trattenere medici già in servizio e ad attrarne di nuovi. Era considerato un disperato, a quei tempi, il neo-laureato che fosse disposto a dedicarsi alle patologie scheletriche, occupandosi magari solo di macchine e attrezzi per cure fisiche; roba da praticoni, si diceva. E poi, per quale tornaconto? Cinquanta lire al mese?
A Bologna e dintorni, chi voleva cimentarsi con l’uso del bisturi si infilava deciso in un reparto di chirurgia generale, come quelli guidati da Giuseppe Ruggi, da Bartolo Nigrisoli, da Rodolfo Berti, da Benedetto Schiassi; chi sceglieva il ramo della medicina interna, restava volentieri sotto l’ala di Pietro Albertoni, fisiologo, o piuttosto di Augusto Murri, clinico insigne. Codivilla si era raccomandato a tutti loro – in grazia della stima guadagnata come collega o come allievo – ma senza ottenere nulla; ci voleva ben altro per convincere quei novellini ad abbandonare una sede così ambita, per la quale si era disposti persino all’assistentato gratuito.
Bisognava, se mai, essere fatti a rovescio degli altri. Come pareva esserlo Anzoletti, che alla gloria e ai soldi non aveva – e non avrebbe mai più – indirizzato i suoi primari interessi. E forse proprio per questo Codivilla aveva ritenuto che gli spettasse di diritto la promozione al posto resosi vacante, nella sezione chirurgica. Notare il «lei» con cui il direttore si rivolgeva al suo assistente (42 anni l’uno, 31 l’altro), pur nel clima confidenziale col quale si era instaurato quel dialogo; un codice di comportamento formale, ma con la sostanza di un rispetto reciproco, che avrebbe resistito ancora a lungo, prima di passare di moda.
Ebbene, dopo l’iniziale sfogo di Codivilla, i due mutarono qualche passo; poi Anzoletti ruppe il silenzio…
A. «Ho pur, nell’ultimo tempo, veduto due giovani che, nel pomeriggio, entrano e si dirigono ai sotterranei, là, nel laboratorio».
C. «Ah!... i due che già studiano col microscopio».
Mi fissò un istante, ebbe un gesto di dubbio e riprese:
C. «Le rincresce tentare? Sentire se, per il momento, l’uno o l’altro dei due si adattasse a fare mostra di sé, nella sala delle macchine; non fosse altro che durante quelle due ore del pomeriggio?».
A. «Un rifiuto non è gradito, ma, quanto al chiedere, non mi vorranno già trucidare».
Codivilla sorrise e:
C. «Quale dei due pensa di aggredire?».
A. «Io? Quello alto, bello, con i grandi occhi marrone».
Non v’era bisogno di molto per destare in Codivilla l’estro del punzecchiatore.
C. «Alto – bello – marrone. Cose importanti queste per lei?».
A. «Per me? non importanti, ma molto importanti».
C. «Um… dopo tutto può darsi abbia ragione. Vada, che Iddio la guidi; vada, discorra con quello bello, dagli occhi marrone e ritorni con buona novella».
«Ma… il nome?».
A. «Putti. È il figliolo di Marcello Putti, il chirurgo».
Il “complice” Anzoletti era entrato in azione. Un impulso l’aveva spinto a scegliere quello alto, bello, con gli occhi marrone… Aveva scelto Vittorio Putti! Dei due era il più giovane, 23 anni, faceva parte di quella sporta di neo-laureati appena sfornata; era trascorso solo un mese, infatti, dal giorno in cui (1° luglio) aveva discusso la sua tesi sperimentale, dal titolo “Azione della formalina sul rene”. L’altro si chiamava Guido Guerrini, due anni in più di anzianità anagrafica, uno di laurea. Entrambi allievi di Giovanni Martinotti, direttore dell’Istituto di Anatomia Patologica dell’ateneo bolognese.
Avevano chiesto di soggiornare al Rizzoli nei locali del laboratorio, servendosi di microscopio, di microtomo e di altre apparecchiature che potessero soddisfare le loro esigenze di studio e di ricerca in campo istologico; locali evidentemente poco frequentati dai sanitari dell’istituto, quasi che l’autorizzazione concessa si rivelasse piuttosto una opportunità per evitare che quel patrimonio venisse ricoperto dalla polvere dell’abbandono.
I due giovani, da parte loro, sfruttavano il vantaggio di svolgere il loro compito in tutta tranquillità, disponendo di ciò che nell’Istituto di Anatomia patologica avrebbero dovuto probabilmente condividere con altri colleghi; e chissà se il loro scopo era anche quello di tenersi lontano da occhi indiscreti. Una cosa è certa: dell’ortopedia, nulla a loro interessava. Salivano volentieri sul colle di San Michele in Bosco e varcavano la soglia dell’ex monastero benedettino solo per recarsi nei sotterranei, e là rinchiudersi, in silenziosa contemplazione dei vetrini da analizzare. Mai uno sguardo rivolto in su, dove invece frenetica – e a quanto pare con qualche affanno – procedeva l’attività di assistenza e cura per le malattie e le lesioni dell’apparato scheletrico.
E infatti ecco Anzoletti svelarci come andarono le cose…
Non erano scorse due ore, dalle parole scambiate con Codivilla, ed io, denunciato al dottor Putti il mio nome, gli dichiaravo, con la mia qualità di messaggero, la qualità del messaggio. La risposta fu un grido: «Nemmeno per idea, nemmeno per sogno, neanche per scherzo».
Scrivo così, ma in realtà il ferro del diniego fu fatto d’acciaio per l’impeto della voce e per l’uso del più tagliente bolognese di Borgo Paglia.
Pregai accettasse l’incarico per qualche settimana; pregai lo accettasse per qualche giorno almeno. Invano. Stette fermo al rifiuto in termini, non dico scortesi, ma corti, duri.
«Mi nega il più» – dissi. «Non sia scompiacente del tutto e mi conceda il minimo: risparmi a me la vergogna di ritornare al direttore con un fiasco di codesta razza. Sia umano, salga con me: porti lei a Codivilla la triste parola del rifiuto».
Un felice incrocio cromosomico, quello di Vittorio Putti. E non solo per i connotati fisici che avevano indirizzato su di lui la preferenza. C’erano i geni trasmessi dal padre Marcello, valoroso ex primario chirurgo dell’Ospedale Maggiore di Bologna, e quelli provenienti dalla famiglia della madre Assunta, sorella di Enrico Panzacchi, noto scrittore, critico dell’arte e della musica.
Nato il 1° marzo del 1880, bolognese purosangue – come del resto lo erano sia Alessandro Codivilla che Augusto Anzoletti –, Vittorio era cresciuto in grazia di Dio, cibandosi fin dalla tenera età di scienza e di arte. Passioni alimentate anche dalle frequentazioni famigliari nella casa di Borgo Paglia, cuore pulsante della città, dove gli era spesso capitato di trovarsi a tu per tu con eminenti personalità della medicina (dal già citato clinico Augusto Murri a un grande maestro della chirurgia come Alfonso Poggi) o con illustri esponenti della letteratura italiana (Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli, tra gli altri). La scelta di seguire professionalmente l’una delle due inclinazioni ereditarie non avrebbe mai offuscato l’altra.
Anzoletti si rivolse al novellino Putti adoperando lo stesso «lei» con cui prima era stato avvicinato da Codivilla; l’etichetta delle buone maniere non ammetteva deroghe di natura gerarchica. Dopo quel deciso rifiuto, però, il tono si fece addirittura implorante: «Non sia scompiacente…», «Sia umano…». Era l’unica maniera per continuare a tessere la trama e l’ordito di un incontro che altrimenti non sarebbe mai avvenuto. Il giovane dal bell’aspetto e dai grandi occhi marrone aveva anche rivelato, in un attimo, la fermezza del suo carattere; e il messaggero – senza lasciarsi scoraggiare dai modi corti e duri della risposta – era stato altrettanto pronto nell’intuire che quella da lui indicata potesse comunque essere la persona giusta. Per cui non desistette, e lo pregò quanto meno di salire con lui: «…porti lei a Codivilla la triste parola del rifiuto».
L’uno accanto all’altro salimmo lenti e muti lo scalone fino allo studio di Codivilla.
Prima ancora che, bussando, fosse data licenza di entrare, spinsi l’uscio. «Il dottor Putti» – annunciai con tono e gesto di gran ciambellano e mi ritrassi di salto.
Quanto attesi? L’orologio mi disse quindici minuti; a me parvero un’ora.
Codivilla e Putti uscirono insieme: negli occhi verdi di Codivilla, luce di contentezza; negli occhi marrone di Putti, qualche cosa di indefinibile, come un misto di stupore e lieve smarrimento.
«Anzoletti» – chiamò Codivilla – «Riveli qui al dottor Putti i segreti della meccanoterapia, della ginnastica e dei massaggi. Quelli del laboratorio li conosce lui meglio di lei. Gli faccia vedere i bagni di acqua e di luce; lo illumini sulla faradica, sulla galvanica, gli mostri il dottor Mandelli; gli mostri insomma tutte le rarità di questo illustre luogo che ha, tra l’altro, l’onore di essere Monumento Nazionale. Affido il collega a lei; se la intendano fra di loro».
Strinse con inusitato calore la mano a tutt’e due e ritornò, allegro, al suo studio.
Come avvenne quel primo incontro, tra maestro e (inconsapevole) suo erede, e cosa realmente si dissero non si seppe mai. Possiamo solo immaginare che Alessandro Codivilla – piccolo di statura, l’ampia fronte indistinta dalla già avanzata calvizie, due occhi vivacissimi e penetranti – fissasse dal basso in alto il dottor Putti, trascinato al suo cospetto. E possiamo anche immaginare come quella «luce di bontà e di fermezza insieme che emanava dal suo volto» (secondo il ritratto di qualche contemporaneo) avesse in qualche modo abbagliato il giovane interlocutore, e spento ogni suo tenace proposito. Sicuramente non di colloquio si era trattato, in quei quindici minuti che ad Anzoletti erano parsi un’ora, ma di un monologo del direttore, a stento interrotto da cenni di tacita, e chissà quanto convinta, approvazione da parte di chi gli stava davanti.
Codivilla era venuto fuori contento e vittorioso, avendo presto trovato chi potesse coprire il vuoto nei reparti di Mandelli, almeno per il momento. Aveva anche ironizzato un po’ – o forse fu Anzoletti a ricamarci sopra, con espressioni a effetto – sulle proprietà terapeutiche di qualche strumento (lo illumini sulla faradica, sulla galvanica) di cui certo non era il più convinto tra i sostenitori, o sulle ricche rarità artistiche custodite in quel vecchio monastero divenuto Monumento Nazionale, verso cui non aveva mai francamente manifestato un grande trasporto. Non gli restava che affidare la preda al predatore, prima di tornare nel suo studio, allegro per la missione compiuta.
Dal neo-laureato Putti, all’uscita da quell’incontro, solo sguardi di stupore e di smarrimento…
Codivilla aveva avuto appena il tempo di sparire che il “collega” mi guatò di sbieco e, muovendo la mano in lieve atto di minaccia e quasi premesse a fatica la voce del petto, soffiò un bolognesissimo:
Putti «Ah!... boia».
Risi: «Ebbene? Com’è andata?».
P. «Com’s’ fa a dir d’no a un omen acsè?», rispose. Poi di urto e con voce forte e chiara: «Ma non ci sto mica, sa. Lo ho dichiarato anche al direttore. Ci sto per quelle quattro o sei settimane finché loro abbiano trovato da aggiustarsi altrimenti. Io vado per Patologia: l’Ortopedia la lascio tutta a loro».
A. «Va bene» – pensai. – «Intanto non ha detto “Codivilla”, ha detto “direttore”. È di buon augurio».
«Come si fa a dir di no a un uomo così?»… Codivilla non aveva convinto Putti ad accettare quell’incarico; lo aveva semplicemente stregato. Il carisma del piccolo uomo, viso da asceta, aveva avuto il sopravvento sulla risolutezza dell’aitante giovane, al quale non era rimasto altro che imprecare, in segno di resa. Si era concesso, dunque; ma solo per quattro o sei settimane, non un giorno in più. E aveva ribadito – ripreso vigore la sua voce, e con un pizzico di perfidia – che la sua strada restava quella per Patologia, mentre l’Ortopedia (da lui, e non solo, considerata ancora una specialità per mestiere da empirici) la lasciava volentieri tutta a loro.
Anzoletti se la rise un po’, lisciandosi compiaciuto la folta chioma della sua aristocratica barba (almeno così ci piace immaginarlo). Aveva agito da buon regista, e già si sentiva gratificato da quel parziale assenso. Noi sappiamo come andò a finire; lui – confessò poi – non ci avrebbe mai creduto…
A. Avevo sperato, vagamente presentito che, a tu per tu con Codivilla, il collega avrebbe esitato a gridare il suo “no”. Non avrei mai pensato che Vittorio Putti, trascinato riluttante tra le pareti di S. Michele in Bosco, sarebbe, in capo a sei mesi, diventato tutta cosa di S. Michele. Meno ancora avrei potuto sognare che, di lì a sei anni, tutto S. Michele sarebbe stato cosa di Vittorio Putti.
Vincolo d’amore per il Rizzoli
Non settimane, non mesi; anni! Trentasette anni, per l’esattezza. Il riluttante Putti non avrebbe più lasciato l’ortopedia e il Rizzoli. Quel destino che aveva tramato alle sue spalle – lui ignaro di essersi fatto condurre nella tana – lo accompagnò per sempre, fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta proprio tra le mura dell’istituto bolognese, all’alba del 1° novembre del 1940, nella villetta adibita a residenza del direttore, la sua.
Sul filo dei lontani ricordi, Anzoletti ancora si chiedeva: «Come potevano ad uomo innamorato dei muti colloqui col microscopio, andare a sangue le fragorose ferraglie della meccanoterapia e, ciò che è ben più grave, senza alcuna fede nella loro efficacia?»; e quanto alle altre cure, «…come non lagrimare il tempo consumato in mortale noia tra le casse, le cassette, i cassoni chiamati forni di Bier, o perduto a soffragare schiene, braccia e gambe?».
Eppure, in quel reparto dove – malvolentieri – era stato assegnato, si distinse subito per serietà, applicazione, ingegno. A richiamare il suo interesse erano soprattutto le macchine di elettrologia, con cui riuscì a prendere una tale confidenza da sfruttarne a pieno il funzionamento, sia a scopo terapeutico che diagnostico. Fu sua l’iniziativa, ad esempio, di osservare le risposte che le correnti elettriche provocavano nella muscolatura dei bambini affetti da poliomielite. Talmente dettagliata la conseguente registrazione dell’esame che Codivilla, leggendola un giorno sulla cartella di un paziente in procinto di essere sottoposto a intervento chirurgico, fece chiamare dalla palestra l’assistente Putti, e lo invitò a operare al suo fianco. Un premio del genere non era stato mai concesso a nessun altro.
Non ci volle molto, in realtà, a far cambiare radicalmente quel giudizio negativo, quasi sdegnoso, sull’Ortopedia. Putti andò oltre le macchine, i bagni e le correnti elettriche, scoprendo che la nuova disciplina, dedita alle malattie dell’apparato scheletrico, aveva una sua dignità scientifica, meritevole di ogni considerazione. Per questo, al di fuori del turno di servizio imposto dal suo ruolo, non disdegnava di recarsi nelle infermerie, per seguire la visita del direttore o condurre egli stesso l’esame clinico; metteva tutto per iscritto, e aggiungeva proprie deduzioni e ragionamenti, derivanti dalle conoscenze di fisiologia o di patologia. Basi sulle quali cominciò anche a cimentarsi nella costruzione di apparecchi meccanici di correzione.
Altrettanto breve fu il tempo impiegato dal prof. Codivilla per rendersi conto che quell’assistente catturato così, per caso, fosse in possesso di grandi virtù, e soprattutto che potesse un giorno diventare il suo miglior erede. Differivano alquanto tra loro, per l’aspetto somatico e per quello caratteriale (più introverso e riflessivo l’uno, più vivace e sfrontato l’altro); ma su certi princìpi, come il culto del metodo e dell’ordine, o la totale avversione verso ogni forma di trascuratezza, il loro pensiero convergeva. Ad accomunarli sarebbe poi stato, soprattutto, l’amore incondizionato verso l’Istituto Rizzoli, per le cui sorti sacrificarono ogni loro risorsa.
Preparare Putti alla propria successione fu un proposito che Codivilla coltivò giorno dopo giorno. Lo esortò intanto a recarsi in Germania, che a quei tempi era la nazione più all’avanguardia nel campo specialistico; da un corso di tecnica radiologica a Monaco di Baviera, e poi da una lunga frequenza nelle Cliniche ortopediche più rinomate (Halle, Berlino, Heidelberg, Colonia), fece ritorno con un bagaglio pieno di nuove concezioni da mettere al servizio del Rizzoli. Viaggi di studio che avrebbero anche dovuto soddisfare un altro desiderio del direttore (oltre che un suo cruccio per non esservi riuscito personalmente): quello di imparare le lingue, e di impadronirsene al punto da poter sostenere discussioni in qualsiasi ambito. Da questo punto di vista, il giovane Putti era già avviato; conosceva il francese, imparò alla perfezione il tedesco, prese confidenza anche con l’inglese e lo spagnolo.
Bene istruito nelle scienze biologiche, aggiornato sulle metodiche diagnostiche, ingegnoso nell’escogitare mezzi di trattamenti conservativi, Putti doveva forse colmare ancora una lacuna nella pratica chirurgica, dal momento che questa non rientrava nelle sue aspirazioni da neo-laureato. Fu il motivo per cui Codivilla pretese che lui fosse in grado di sapersi destreggiare nella chirurgia generale, prima di inoltrarsi nel campo più specialistico dell’apparato muscolo-scheletrico. Lo affidò pertanto al suo collega Benedetto Schiassi, primario a Bologna, che per ben due anni, due giorni alla settimana, lo accolse nella sua sala operatoria.
Dopo l’iniziale incarico temporaneo, il dottor Vittorio Putti ebbe la nomina ufficiale di assistente al Rizzoli nel 1904. Per espletare senza problemi di incompatibilità la frequenza all’estero, si dimise nei primi mesi del 1907; ma al suo ritorno c’era già pronto per lui un inedito ruolo di assistente effettivo addetto ai gabinetti scientifici, che precedeva di poco quello di vice-direttore. Un’ascesa rapida, anche sul fronte universitario, come libero docente e professore straordinario. Codivilla, pienamente consapevole che i suoi gravi problemi di salute non gli avrebbero concesso ancora molto tempo, l’aveva messo sulla rampa di lancio per l’ultimo decisivo salto verso il posto apicale. Che, per l’appunto, arrivò alla morte del maestro, nel febbraio del 1912; dapprima in condivisione con Gaetano Sangiorgi (l’uno direttore clinico, l’altro direttore tecnico), poi da solo, dal 1915, come direttore unico.
Per venticinque anni al timone dell’istituto, il prof. Putti riuscì a farlo progredire sotto tutti i punti di vista, allargandone la fama a livello mondiale. La stima e la riconoscenza che nutriva per Codivilla lo spinsero innanzitutto a raccoglierne tutti gli scritti, facendoli pubblicare a sue spese, e soprattutto a proseguirne l’opera, impegnandosi a realizzare alcuni di quei progetti che non si era fatto in tempo a ultimare. Come quello di fondare una rivista che risultasse la voce scientifica del Rizzoli (nel 1917 vide la luce La Chirurgia degli Organi di Movimento), oppure di creare un istituto riservato esclusivamente alla cura della tubercolosi osteoarticolare (nel 1927 venne inaugurato a Cortina d’Ampezzo l’Istituto Elioterapico Codivilla).
La parabola di quel destino che li aveva fatti incontrare proseguì felicemente la sua traiettoria.
«Se la intendano fra di loro» … Così Codivilla, all’uscita dal suo studio, si era disinvoltamente congedato da Anzoletti e da Putti, in quella mattina d’agosto del 1903. L’intesa fu immediata, e in poco tempo si trasformò in sincera amicizia. Dissimili anche loro due: «di origine, di presenza, di abitudini», a parte il divario anagrafico di otto anni. Unanime il loro modo di intendere la vita, l’impegno sul lavoro, il rispetto del prossimo; e poi, quell’amore per gli alberi e la natura in generale, che talvolta li spingeva a inoltrarsi insieme nei boschi dei colli bolognesi, quando veniva a loro concesso di liberarsi un po’ dalla guardia in istituto.
E a proposito di guardia, Anzoletti narra un episodio – avvenuto poco tempo dopo il primo incontro – che aveva forse sancito, definitivamente, il loro vincolo di amicizia. Nulla di meglio che le sue parole per descrivere la scena
Di ventiquattro in ventiquattro ore, dalle 6 dell’oggi alle 6 del domani, la guardia era obbligo alterno dei due assistenti minori. Non cosa di peso nelle ore diurne (Sangiorgi, l’aiuto, era caritatevolmente pronto ad incaricarsi lui della bisogna quando avessimo chiesto qualche mezz’ora di libertà); grave poteva riuscire la notte: rompermi il sonno significava, e tuttora significa, perderlo del tutto; darmi stanchezza, male di capo e rendermi inservibile e insopportabile per tutta la giornata seguente. Putti, forte, uso a viaggi, alpinista, cacciatore, con nervi – in quel tempo – a tutta prova, aveva subito riconosciuto la cattiva qualità dei miei. Avvenne che un mattino presto, non ancora consumate le ore della mia guardia, visitando una piccina operata il dì innanzi, rinvenissi tagliato da capo a fondo ed allargato il gesso.
«Chi è stato?» – chiesi.
«Il dottor Putti» – rispose l’infermiera. – «La bambina si lamentava forte e le dita non erano belle».
«Perché non avete chiamato me?».
«Ordine del dottor Putti: “Di notte, qualunque cosa accada, se è di guardia il dottor Anzoletti, prima di chiamare lui, chiamate me”».
Scesi al piano terreno, alla cameretta che ancora pochi giorni innanzi era stata la mia. Putti, torso nudo, si stava asciugando.
«Caro dottore» – dissi – «credo che ce ne sia abbastanza per giustificare un cambiamento del pronome fino ad oggi in uso tra noi. Dall’età mia, maggiore della sua, prendo argomento ed animo a chiedere che al posto del “lei”, sia collocato il “tu”».
Mi abbracciò forte…
Augusto Anzoletti, classe 1872, laureatosi a Bologna nel novembre 1898, aveva deciso di indirizzarsi subito verso l’ortopedia, e di svolgere un tirocinio presso le cliniche di due tra i più grandi pionieri europei della specialità: Adolf Lorenz a Vienna e Albert Hoffa a Berlino. Nel 1900 si era stabilito a Milano, all’Istituto per gli Infortuni sul lavoro presieduto dal dott. Luigi Bernacchi (uno dei soci fondatori, nel 1891, della Società Ortopedica Italiana) e, da volontario, all’Istituto dei Rachitici diretto dal già citato Pietro Panzeri. Tornato a Bologna, il 1° gennaio del 1902 venne assunto ufficialmente al Rizzoli, con la qualifica di assistente subalterno, come sappiamo; e sappiamo pure che l’anno successivo passò dalla sezione delle cure fisiche a quella chirurgica, restandovi in servizio fino al 30 aprile 1904.
Nei confronti di Codivilla nutriva una tale stima da sfociare facilmente in devozione; stima ampiamente ricambiata, come possono confermare le non poche occasioni in cui il direttore convocava Anzoletti nel proprio studio, per confidargli dubbi e preoccupazioni riguardanti l’istituto o i problemi personali di salute; altre volte, per incoraggiarlo o consolarne l’animo, angosciato da qualche contrarietà. Come quella volta in cui lo autorizzò a praticare lui, in sala operatoria, la riduzione per una lussazione congenita d’anca di una bambina, e purtroppo la manovra provocò involontariamente una frattura del collo del femore; Codivilla, in tutta tranquillità, si limitò a ordinare: «Mettete subito cerotti e pesi»... E poi, in separata sede, cercò di sollevare il morale del suo assistente: «Non ci pensi. Il più delle cose al mondo si accomoda da sé, e le fratture dei bambini si aggiustano presto. Il nostro mestiere è come lardellato di scherzi di questo genere; bisogna assuefarsi, tollerarli senza smarrire la pace dell’animo».
Fu ancora Codivilla a sostenere Anzoletti nel prosieguo della carriera, indirizzandola verso esperienze sempre più proficue. Nell’inverno del 1903 lo esortò a recarsi a Zurigo, nell’istituto di William Schulthess, che aveva escogitato strumenti e metodi innovativi per il trattamento della scoliosi. Poi di nuovo a Vienna, da Lorenz, che di altrettanto progresso si era reso artefice per la lussazione congenita dell’anca. Anzoletti – così come avrebbe poi fatto Putti – restituiva al suo ritorno tutto ciò che era riuscito ad apprendere, compresa la conoscenza della lingua tedesca, quanto mai utile al direttore per la traduzione di articoli.
Per occupare un meritato posto di aiuto – per il quale forse le strade al Rizzoli erano chiuse – lo convinse poi ad accettare, nel 1905, il trasferimento all’Istituto dei Rachitici di Milano, che Anzoletti aveva già frequentato da neo-laureato; stavolta si trovò alla corte del prof. Riccardo Galeazzi, succeduto nel 1903 allo stesso Codivilla, che per poco meno di un anno aveva diretto – come a suo tempo Pietro Panzeri – entrambi i due istituti ortopedici.
Integratosi nell’area lombarda, dove le sue virtù professionali acquisirono più visibilità, per Anzoletti arrivò, nel 1909, una chiamata da Bergamo da parte di Matteo Rota, direttore del locale Istituto per rachitici (successivamente intitolato al suo nome), da lui fondato e poi elevato al rango di centro chirurgico, prevalentemente orientato alla cura delle deformità infantili. Superati i 60 anni, Rota sentì l’esigenza di affidare ad altri la responsabilità medica, per occuparsi soltanto della parte organizzativa. Anzoletti, che di anni ne aveva ancora 38, scalava così l’ultimo gradino della sua carriera: assunto ufficialmente nel ruolo di primario il 1° gennaio del 1910, lo mantenne fino al giugno del 1922.
Sulla scia della sua aumentata casistica, scaturirono in questo periodo le sue più interessanti note cliniche, in particolare quelle sulle deformità del piede (equino-varo e piano-valgo) per le quali ideò e mise in pratica metodi originali. Da segnalare anche la pubblicazione dal titolo “Della trazione di Codivilla”, con la quale dava seguito – rafforzandola poi con ulteriori articoli – alla sua personale battaglia in difesa della priorità della trazione transcheletrica (così come escogitata nel 1902 dal direttore del Rizzoli) contro le infondate rivendicazioni dello svizzero Fritz Steinmann. Un ulteriore segno di riconoscenza nei confronti del maestro scomparso, oltre al dovere di farsi paladino delle conquiste dell’ortopedia italiana.
Francesco Delitala, allievo anch’egli di Codivilla e successore di Putti alla direzione del Rizzoli, annoverava tra i pregi di Anzoletti il suo assoluto disinteresse per l’aspetto economico. Così distaccato dal denaro e dagli onori che all’età di 50 anni, quando ancora poteva trarre ogni privilegio dalla sua posizione di primario, decise di rassegnare le dimissioni dall’istituto bergamasco, e di dedicarsi soltanto a una attività da libero professionista. Si narra che a Bergamo era solito inforcare la bicicletta – oppure spingerla a mano, quando si trattava di affrontare le erte del borgo antico della Città Alta – per visitare a domicilio i suoi clienti; sulle spalle portava un sacco da montanaro con qualche benda gessata, qualche apparecchio o ferro chirurgico, e per le sue prestazioni poteva andar bene anche una piccola ricompensa, di qualsiasi natura.
Per ritirarsi del tutto dalla professione – proseguita in forma discreta, quasi nell’ombra, come sicuramente era suo desiderio – attese di compiere il suo 75° compleanno. Tornato nella sua Bologna, si accontentò di vivere solitario in una casetta, senza alcun agio, per quello che una modesta pensione dell’Ordine dei medici poteva permettergli. Una piccola libreria e una gabbia di canarini a ravvivare un po’ lo spoglio arredo. Nella quiete di questo ambiente così intimo e appartato la sua mente si fece facilmente trasportare dai ricordi,
Non rinunciò mai, tuttavia, alla sua consueta visita al Rizzoli, dove tornava sempre volentieri a respirare l’aria di famiglia. Lo vedevano inerpicarsi sul colle di San Michele in Bosco, con passo deciso, il fisico asciutto, l’inconfondibile lunga barba, sempre più canuta. Ai tempi in cui era ancora direttore Vittorio Putti, questi, scorgendolo da lontano, non esitava addirittura a fermare il giro-visita (evento assolutamente insolito per lui) e accoglierlo affettuosamente con un, bolognesissimo, «It què, vecc!». Altrimenti, bastava affacciarsi nella biblioteca dell’istituto, e ritrovarlo là, intento a documentarsi su testi di meccanica articolare o di storia dell’ortopedia, argomenti per i quali la sua passione non si era mai assopita.
Con una mente così allenata e lucida, e con animo sereno, Augusto Anzoletti arrivò fino al traguardo dei 98 anni, prima di salutare questo mondo, nel 1970. Scrisse di lui il prof. Delitala: «Era della tempra di Codivilla e di Putti, pur non avendone le qualità di chirurgo, di animatore, di maestro. Ne era l’amico sicuro, il consigliere fedele, quasi il confessore laico…».
La storia la fanno anche personaggi come lui.
- Il testo originale del racconto di Augusto Anzoletti è tratto dal suo libro: “Alessandro Codivilla e Vittorio Putti, nel ricordo di un loro contemporaneo”; Cappelli Editore, 1954.
Storia
Ricevuto e accettato: 3 aprile 2024