Lo andava ripetendo spesso: «Il destino e la fortuna mi hanno portato ad essere uno dei successori di Vittorio Putti nella prestigiosa cattedra bolognese. Per sorte ognuno di noi ha vocazioni, illuminazioni e limiti…». Destino, fortuna, illuminazioni; come se tutto dipendesse da una forza trascendente. I meriti propri dell’uomo – preparazione, impegno, signorilità – lasciava che fossero gli altri a riconoscerli; e ad esaltarli. Era fatto così, Mario Paltrinieri; una modestia pari alla sua dignità professionale. Più che uno dei successori, fu l’ultimo allievo di Putti a salire su quella prestigiosa cattedra. Con lui, finiva un’era.
Era il 1° novembre del 1968 quando il Rizzoli di Bologna accoglieva nuovamente tra le sue monumentali mura il prof. Paltrinieri. L’orgoglio di tornare in posizione avanzata nella città dei suoi studi, e soprattutto in quell’istituto che lo aveva nobilmente formato nella disciplina ortopedica, non poteva farsi sopraffare dal rammarico di abbandonare la direzione della Clinica universitaria di Pisa, da lui peraltro fondata. Se pure fosse stato solo il destino a offrirgli quella opportunità, non restava altro che farsi trascinare, e cercare di onorare al meglio il compito che gli veniva assegnato.
Un misto di timore e ambizione. Non ci fossero stati entrambi questi sentimenti a occupare la sua mente, la storia non gli avrebbe riservato un posto nella galleria dei grandi direttori dell’istituto bolognese. Il timore di non essere all’altezza dei suoi illustri predecessori – Alessandro Codivilla prima di Vittorio Putti, poi Francesco Delitala e Raffaele Zanoli – era solo il legittimo stato d’animo di chi si avvicinava sempre con umiltà a nuovi e più gravosi incarichi. Tanto più che al Rizzoli, da qualche anno, il ruolo del direttore unico era stato cancellato dalla istituzione di ben quattro divisioni ospedaliere, di cui solo una affidata alla Clinica universitaria; e quindi bisognava reggere il confronto, con fermezza e diplomazia. L’ambizione, invece, scaturiva da quel senso di appartenenza, a una scuola e a una dinastia, che Paltrinieri sentiva forte nel suo animo, desideroso di dare continuità alla fama dell’istituto. In tal senso, la proficua esperienza accademica di Pisa poteva solo servire a sostenerlo e a incoraggiarlo
Prendeva così il via l’ultima tappa – la quarta – della carriera di Mario Paltrinieri. In tutto, più di cinquant’anni «vissuti tra gli splendori dell’ortopedia», come gli piacque intitolare un suo articolo di congedo, comparso nel 1982 su “La Chirurgia degli Organi di Movimento”, rivista del Rizzoli da lui stesso diretta negli ultimi quattordici anni di carriera. Da Bologna a Cortina d’Ampezzo; primo ritorno a Bologna; poi la Toscana e Pisa; e ancora Bologna. L’itinerario di chi, legato alle proprie radici, dopo avere a lungo navigato e attraversato varie avventure professionali, sentiva il richiamo delle proprie origini e il dovere di mettere tutto il suo patrimonio culturale al servizio dell’istituto-madre.
Da Bologna a Cortina, esordi felici
A Bologna la famiglia Paltrinieri si era stabilita nel 1912, quando Mario, quinto di sei figli, aveva appena sette anni e doveva frequentare la seconda elementare. Erano tutti nati a San Felice sul Panaro, piccolo centro rurale della Bassa Modenese, dove l’infanzia aveva conosciuto fino ad allora solo la spensierata vita all’aria aperta, con l’acqua del vicino fiume ad alimentare la coltivazione della canapa e i divertimenti di loro ragazzi. Nel decidere di abbandonare la campagna e traferirsi nel capoluogo emiliano, papà Mauro aveva pensato solo al futuro dei figli, offrendo a loro le migliori opportunità per il percorso scolastico.
L’abitazione in Via Santo Stefano, dove il numeroso nucleo dei Paltrinieri trovò sistemazione, diede al destino l’occasione di lanciare il suo primo segnale. L’appartamento sottostante dello stesso stabile era occupato dalla famiglia Codivilla, il nome di colui che era stato il creatore della moderna ortopedia italiana, primo effettivo direttore del Rizzoli per più di un decennio. Era ancora fresco il ricordo di Alessandro Codivilla, morto pochi mesi prima, a soli 51 anni, nella villetta dell’istituto a lui riservata. La moglie Emilia, che aveva già dovuto sostenere la pena per la scomparsa prematura del primogenito Titì, aveva deciso di ritirarsi subito in città con gli altri due figli, Ernesto e Mario. Quest’ultimo, omonimo e coetaneo di Mario Paltrinieri, avrebbe stretto con lui un’amicizia intima e duratura, fianco a fianco sui banchi di scuola fino alla maturità, al Liceo Galvani.
Chissà se la vicinanza con la famiglia del maestro prematuramente scomparso, e magari qualche racconto sulle sue geniali invenzioni, suggestionarono in qualche misura le scelte di Mario Paltrinieri? Fatto è che, mentre Mario Codivilla al crocevia dell’università prendeva la strada di Ingegneria, lui tirava dritto per Medicina, e una volta conseguita la laurea (con lode!), nel luglio del 1929, e superati gli esami di stato a Genova, volse lo sguardo in su, verso il colle bolognese di San Miche in Bosco. Il Rizzoli e l’ortopedia lo strinsero in un abbraccio dal quale non si liberò più.
C’era l’allievo ed erede di Alessandro Codivilla a dirigere l’istituto, quel Vittorio Putti che – con gli stessi princìpi e la stessa intransigenza – ne reggeva onorevolmente le sorti ormai da quasi vent’anni. L’aveva fatto progredire, a dire il vero, tanto da allargarne ancor più la fama al di fuori dei confini nazionali, ed essere lui considerato un vero ambasciatore dell’ortopedia italiana nel mondo. Tra l’altro, alcune sue iniziative erano scaturite da progetti che il suo predecessore non aveva fatto in tempo a realizzare: come la fondazione, nel 1917, di una rivista che emanasse la voce scientifica del Rizzoli, “La Chirurgia degli Organi di Movimento”; o la creazione, nel 1924, di uno stabilimento esclusivamente riservato alla cura della tubercolosi osteo-articolare, per il quale lo stesso Putti ebbe la felice intuizione di avvalersi di un vecchio hotel in disuso sulla conca dolomitica di Cortina d’Ampezzo e la fine sensibilità di intestarla al suo propugnatore, “Istituto Elioterapico Codivilla”.
Un tirocinio di appena un mese fu sufficiente al neolaureato Paltrinieri per assorbire lo spirito del Rizzoli, tramandato di decennio in decennio e di maestro in maestro. Impegno, dedizione al malato, aggiornamento costante. Senza queste attitudini, non avrebbe sicuramente potuto assecondare il volere del destino, che si ripresentò presto sotto forma di concorso pubblico, proprio per un posto di assistente all’Istituto Elioterapico Codivilla. Lo vinse, e nel giugno del 1930 prese servizio nella succursale di Cortina, prima tappa del suo cammino. Avrebbe avuto anche lui, così, il merito di onorare la memoria del papà del suo grande amico.
Allontanatosi dalla casa madre, ma rimasto a far parte della stessa famiglia, era andato a occupare il posto (lasciato vacante dal collega più anziano Carlo Carli) di primo collaboratore del primario, il dott. Sanzio Vacchelli, allievo di Codivilla prima e di Putti poi. A quest’ultimo spettava il ruolo di direttore, che di tanto in tanto faceva la sua comparsa da Bologna, controllando malati, personale e attrezzature con la solita inflessibilità.
Per il giovane dott. Paltrinieri furono quattro anni di piacevole esperienza lavorativa, favorita dall’ambiente sereno nel quale si svolgeva l’attività assistenziale e dalle bellezze paesaggistiche del luogo. La tubercolosi osteo-articolare rappresentava la patologia principale, peraltro in una fase storica in cui – abbandonati in buona parte gli spregiudicati e spesso dannosi atti operatori cruenti – si preferiva affidarsi all’astensionismo chirurgico, al riposo e alla immobilizzazione del segmento scheletrico colpito, e soprattutto all’azione del sole, con i pazienti allineati sui loro letti di degenza lungo le ampie terrazze dell’istituto. Per la scoperta della streptomicina, e l’inizio di una nuova e più efficace epoca terapeutica, bisognava ancora attendere più di un decennio.
La casistica, in realtà, era contrassegnata anche da svariate altre patologie dell’apparato scheletrico, essendo a quel tempo l’unica struttura ospedaliera specialistica di un vasto territorio che dal Veneto si estendeva fino all’Alto Adige e al Friuli. Particolarmente elevato il numero di traumatizzati nei periodi di maggiore afflusso turistico, vittime di infortuni degli sport della neve (al primo posto le fratture bimalleolari nella pratica dello sci non ancora protetto dagli scarponi rigidi) o di incidenti stradali. E anche lassù ai piedi delle Dolomiti bellunesi, in un ambiente così ovattato, l’impostazione rizzoliana imponeva studio e ricerca, come testimoniano gli articoli scientifici che in quel periodo portavano la firma di Sanzio Vacchelli, dello stesso Mario Paltrinieri, o dell’assistente di un anno più giovane Germano Mancini.
Gli spettacoli organizzati nel salone principale dell’ex hotel, le gite ai passi e ai rifugi di montagna, le traversate con slitte, le battute di caccia al capriolo, le discese con gli sci su campi non battuti, facevano parte del ricco programma extra-lavorativo. Momenti di festa e di spensieratezza; e tra questi, non poteva mancare per Mario anche l’occasione di un incontro amoroso. Conobbe la giovane concittadina Gabriella, solita trascorrere con la famiglia lunghi periodi di vacanza in quella valle. Finì che oltre al fidanzamento, Cortina fece da sfondo anche al loro matrimonio, nel settembre del 1933. I novelli sposi si sistemarono in una deliziosa villa dall’invidiabile panorama, dove Mario di certo non poté rimpiangere il trattamento alberghiero di prima classe riservato ai medici in istituto. Vita ancora più lieta e serena; ma appena quattro mesi dopo, giunse una voce dal Rizzoli di Bologna che lo invitava a tornare. Uno di quei richiami a cui non si poteva rispondere di no.
Alla corte di Putti, impegno e disciplina
Al Codivilla Paltrinieri aveva anche esercitato le mansioni di aiuto; al Rizzoli tornava da semplice assistente di ruolo. Un passo indietro, in apparenza; uno scalino più su, nella sostanza. Entrare a far parte attivamente della corte di Vittorio Putti – dato che in quell’ormai lontano tirocinio post-laurea della durata di un mese non c’era probabilmente stato neanche un contatto vero col maestro – aveva il sapore di una promozione sul campo, un’opportunità alla quale non si poteva in alcun modo rinunciare.
Qui la squadra era più numerosa e, se vogliamo, la concorrenza più agguerrita. Tuttavia, nel ritrovarsi al fianco di colleghi abili e motivati, e nel sostenere ritmi di lavoro sicuramente più frenetici, c’era solo da guadagnare professionalmente. Anche perché, a prevalere erano i sensi di collegialità e di amicizia; come quelli instaurati con Giusto Filippi (primo aiuto di Putti), con Spartaco Scheggi e Carlo Carli (suoi predecessori al Codivilla), con Oscar Scaglietti (un legame rafforzato dalla comune passione della caccia); e ancora, con Evandro Pasquali (futuro primario a Piacenza), con Augusto Bonola (poi in cattedra a Modena), col già citato Germano Mancini (anche lui richiamato al Rizzoli, prima di inaugurare da direttore la Clinica ortopedica di Ferrara).
Tutti avevano un’autentica venerazione per il professor Putti; e quella di Paltrinieri – a giudicare da come lo avrebbe poi celebrato – era sicuramente una delle più sentite. Lo ricordava spesso nei suoi scritti, descrivendolo come un direttore esigente con i suoi allievi, austero e anche duro nei suoi comportamenti, ma quanto mai efficace nell’esercitare l’arte del comando. Pretendeva tanto dagli altri perché tanto pretendeva da sé stesso. Se chiedeva notizie di un malato durante il giro visita, non accettava risposte sommarie; come per esempio di un paziente poliomielitico, del quale bisognava fare l’elenco dettagliato dei muscoli paralizzati e di quelli risparmiati. Lo stesso valeva per la conoscenza di una via di accesso chirurgica o di un reperto anatomo-patologico. Gli apparecchi gessati dovevano essere ben modellati; e chi gli presentava la radiografia di una frattura non perfettamente ridotta difficilmente la faceva franca: «Lei è un giovane che si contenta; un giovane deve tendere alla perfezione, rifaccia la riduzione!».
L’impegno sul versante scientifico, come abbiamo già visto, doveva valere per tutti come un marchio di fabbrica. A tal proposito, Paltrinieri ebbe l’onore e il merito di collaborare (insieme a Oscar Scaglietti) con lo stesso Putti nella stesura di un atlante clinico-radiografico sulle fratture vertebrali; un volume di ben 383 pagine, ricco di casistica e di immagini, che proiettava luce nuova in un campo vastissimo della traumatologia, ponendo solide basi per la diagnosi e la terapia.
Del suo maestro aveva potuto apprezzare anche l’aspetto umano, quel lato un po’ nascosto che, al di fuori dei rigidi rapporti di lavoro, lo rendeva sensibile e generoso. Come in occasione dell’esame per la libera docenza, che così Paltrinieri ricordava: «Ero in attesa di entrare per la famosa lezione che durava 45 minuti, di fronte ad una commissione di tre professori universitari; ero pallido ed avevo i lineamenti tirati: mi era toccata in sorte la tubercolosi del tarso. Il Maestro, che era uscito momentaneamente dall’aula, resosi conto della mia trepidazione, mi batté su una spalla e mi disse: “Paltrinieri si tranquillizzi; sappia che anch’io, a distanza di 25 anni, prima di entrare in aula per la lezione sono emozionato”. La comprensione del mio stato d’animo e quel conforto confidenziale mi dettero coraggio; entrai e feci la lezione con la piena approvazione della commissione».
Una sensibilità che Putti aveva già manifestato tempo prima, nei confronti dell’allievo Paltrinieri, quando questi fu colpito da un lutto dolorosissimo. Nel 1935, la moglie Gabriella, che aveva già dato alla luce una bimba, Bianca Maria, morì ad appena 26 anni, in seguito a una complicazione post-partum, una setticemia puerperale, che condusse alla stessa tragica fine anche il figlioletto appena nato. Paltrinieri fu chiamato dal direttore, che cercò di consolarlo in tutte le maniere e, in un impeto di generosità, lo promosse primo assistente.
Arrivò poi anche l’avanzamento ad aiuto, nel 1937, assieme alla libera docenza; il titolo di professore avrebbe poi trovato adeguato apprezzamento in ambito universitario. Questa sua seconda permanenza al Rizzoli durò quasi sette anni. Gli erano bastati per assimilare in pieno i moderni princìpi della specialità ortopedica. Se Codivilla ne era stato il creatore, avendole dato dignità scientifica e chirurgica, Putti poteva esserne considerato l’innovatore, colui che aveva promosso nuovi metodi di diagnosi e di cura, e sperimentato nuovi strumenti. Basti citare, tra i tanti, i progressi nel trattamento della lussazione congenita dell’anca, nello studio istologico e nella classificazione dei tumori ossei, nella osteosintesi del collo femorale con una vite da lui ideata, nelle artroplastiche biologiche. E basti accennare con quanta abilità aveva allestito e organizzato l’istituto da lui diretto in previsione di affrontare l’emergenza bellica, sia della Prima che della Seconda guerra mondiale. A quest’ultimo appuntamento con la storia, Putti non fece praticamente in tempo ad arrivare, venendo a mancare il 1° novembre del 1940.
In Versilia e a Pisa, ad ali spiegate
Trentacinque anni appena compiuti, Paltrinieri si era staccato dal Rizzoli qualche mese prima, esattamente il 4 settembre, approdando in Toscana; terza tappa del suo cammino. Gli era stato assegnato un posto di primario all’Istituto Giuseppe Barellai, di recente edificazione sul litorale della Versilia, in località Cinquale, tra Marina di Massa e Forte dei Marmi. Era la nuova sede dell’antico Ospizio Marino di Viareggio, che il medico e benefattore fiorentino Giuseppe Barellai aveva istituito nel 1861 per la cura della tubercolosi extra-polmonare dei bambini, dando il via alla realizzazione di molte altre strutture simili, lungo le coste dell’intera nostra penisola.
Più che un semplice sanatorio, lo stabilimento del Cinquale (inizialmente intitolato a Italo Balbo, per volere del regime fascista) era assurto al ruolo di vero e proprio ospedale, specializzato nel campo della pediatria e dell’ortopedia. Cinque padiglioni, una disponibilità di 500 posti letto, con sale operatorie, palestra, officina, attrezzature moderne; un ampio giardino e una spiaggia privata si prestavano alla pratica dell’elioterapia e della talassoterapia.
A Paltrinieri era stato affidato il primariato della sezione ortopedica, da lui suddiviso in un reparto per la tbc ossea e in uno nel quale confluivano patologie di pertinenza sia ortopedica (lussazione congenita dell’anca, scoliosi, piede torto), sia traumatologica (soprattutto per infortuni sul lavoro, procurati dalla fiorente industria del marmo e dai numerosi opifici presenti tra Massa e Carrara). L’esperienza maturata prima al Codivilla e poi al Rizzoli gli permetteva di affrontare tutto con adeguata perizia; la libertà di poter prendere decisioni e di intervenire in prima persona fu per lui motivo di grande soddisfazione.
Aveva anche dovuto adeguarsi alle rinnovate necessità del tempo. La tubercolosi cominciava a perdere terreno, grazie alla scoperta della streptomicina, mentre avanzava minacciosa l’ondata della poliomielite, con i suoi postumi invalidanti sull’apparato scheletrico. E quando l’entrata in guerra dell’Italia cominciò dall’autunno del ’40 a fare rimpatriare militari motulesi, per lo più con piedi congelati provenienti dal fronte greco-albanese, si dovette far posto anche a loro, mettendo a disposizione altri 120 letti.
Era stato anche lui, in verità, sul punto di essere spedito in zone di combattimento con la divisa da ufficiale medico. Avrebbe dovuto imbarcarsi su una nave destinazione Pireo, nel ’41, o su un aereo diretto in Tunisia nel ’43; ordine che in entrambe le circostanze venne revocato, in virtù del ruolo che aveva assunto al Cinquale come direttore di una sezione per feriti di guerra.
Furono tuttavia proprio gli eventi del secondo conflitto mondiale a segnare anzitempo, e in maniera tragica, la fine di questo istituto. Trovandosi all’estremo tirrenico della cosiddetta “linea gotica”, nell’estate del ’44 i tedeschi diedero prima l’ordine di sfollamento, poi lo minarono e lo rasero al suolo. Nessuno aveva previsto una tale distruzione, altrimenti sarebbe stato possibile portare in salvo – quanto meno – le tante attrezzature, gli strumenti, la ricca documentazione clinica. Fu invece cancellata ogni testimonianza storica.
Un colpo durissimo per Paltrinieri, che era riuscito a conquistarsi un posto di prestigio in quell’angolo di Toscana, dove non era mai esistita una istituzione ortopedica; l’afflusso di pazienti non conosceva limiti, né di età, né di tipo di patologia. La sua fama aveva raggiunto anche Pisa, dalla cui università venne chiamato nel ’43, per assumere l’incarico di insegnamento della Clinica ortopedica. Un mandato che inizialmente non riuscì a espletare a dovere, per lo stato perenne di allarme a cui era sottoposta la città. Eppure, era così forte il suo desiderio di insegnare da indurlo a raccogliere lui stesso alcuni studenti sulla strada per Pisa, caricarli sulla sua automobile, e raggiungere la famosa Piazza dei Miracoli; seduti sui gradini del Duomo, tra Battistero e Torre Pendente, la lezione assumeva le caratteristiche di una piacevole conversazione.
Ridotto in macerie il Barellai, e distrutta nella stessa estate del ’44 la città di Pisa dai bombardamenti, Paltrinieri non poté fare a meno di rinunciare per un po’ di tempo a qualsiasi incarico professionale. Tutto il Nord Italia era diventato un campo di battaglia. Insieme a uno dei suoi fratelli, Sebastiano, clinico medico veterinario a Pisa, si ritirò nel paese natio, a San Felice sul Panaro, in attesa che la tempesta passasse. Vi restò un anno intero, non trovando di meglio che dedicarsi alla medicina generale in soccorso alla gente del posto, mentre i soldati tedeschi in ritirata occupavano le loro case.
Il rientro in Toscana avvenne solo a guerra finita, nel giugno del ’45. Era tutto da ricostruire. Sistemazioni di fortuna le trovò a Forte dei Marmi, dove il primario chirurgo di La Spezia, il prof. Maurizio Bufalini, aveva adibito una villa privata a “Pronto soccorso”, e a Viareggio presso una casa di cura gestista da suore. Nel frattempo, si erano iniziati i lavori per la creazione di un nuovo istituto elioterapico a Monterotondo, in provincia di Livorno, ai piedi del colle di Montenero, circa 1 km dalla spiaggia tirrenica. La struttura era sorta su iniziativa di Oscar Scaglietti, che da poco aveva assunto la direzione della Clinica ortopedica di Firenze, presso l’Istituto Ortopedico Toscano “Piero Palagi”. Anch’esso inizialmente destinato al ricovero dei pazienti affetti da tubercolosi osteoarticolare (170 i posti letto), con le sue ampie terrazze rivolte verso mezzogiorno, l’istituto di Monterotondo si era poi adattato alla cura di qualsiasi patologia scheletrica. Fu Mario Paltrinieri a reggerne le sorti, dal giorno dell’inaugurazione, nel settembre del ’48, fino al luglio del ’53, quando – in una movimentata fase storica di ripresa post-bellica – divenne primario di ruolo della divisione ortopedica dell’Ospedale di Lucca, dopo esserlo stato per diverso tempo in forma precaria.
C’era ancora quell’incarico di insegnamento universitario a Pisa, per il quale si era a lungo atteso una posizione stabile e una sede idonea. Questa fu trovata in un palazzo dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza, organismo in favore di individui e famiglie in condizioni di particolare necessità), situato in Via Risorgimento, nei pressi dell’antico Ospedale Santa Chiara, e quindi vicino a quella Piazza dei Miracoli che un tempo era stata da lui improvvisata come aula di lezione. L’edificio presentava le caratteristiche dell’architettura razionalista e monumentale, tipica dell’epoca in cui era stata costruito, negli anni trenta. Dopo la guerra, con la sopraelevazione di un terzo piano, oltre a opportune opere di adattamento, venne tramutato in un moderno reparto ospedaliero; e nel 1951 ci fu la solenne inaugurazione della nuova Clinica ortopedica. Il prof. Paltrinieri venne investito della duplice funzione di primario ospedaliero e di direttore incaricato di Clinica; di ruolo lo divenne nel 1962, dopo aver vinto il concorso a cattedra, e a quel punto fu obbligato a cessare il suo rapporto con l’Ospedale di Lucca.
Aveva raggiunto la vetta delle sue aspirazioni, direttore di un reparto universitario così come lo era stato il suo maestro. Oltre all’orgoglio personale, sentì il dovere di onorarne la memoria e di essergli in qualche modo riconoscente, ufficializzando la seguente intestazione: Clinica ortopedica “Vittorio Putti”. Un’insegna di assoluto prestigio, a indicare chiaramente il blasone di una nobile discendenza. La proposta, del tutto inconsueta, venne accettata dall’amministrazione, e resistette per anni finché il complesso perse la propria autonomia, venendo poi assorbito dal Policlinico di Santa Chiara.
Al di là dei titoli onorifici, Paltrinieri poteva sentirsi appagato dalle grandi opportunità professionali che gli venivano offerte. Aveva a sua disposizione locali ampi e funzionali sia per l’attività didattica che per quella di cura; rilevante il materiale clinico, così come la dotazione di apparecchiature e di strumentario per gli atti operatori. Il rapido aumento delle richieste comportò l’ampliamento dell’edificio primitivo con l’aggiunta di un corpo laterale. Peraltro, la direzione della Clinica implicava anche la gestione dell’Istituto Marino del Calambrone, ennesimo stabilimento a vocazione talassoterapica, sulle coste versiliane.
«A Pisa potei spiegare le ali», avrebbe poi dichiarato Paltrinieri nelle proprie memorie. La sua voce, intanto, acquistò sempre più autorevolezza nelle assise congressuali, in particolare nelle adunanze della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia; come nelle edizioni di Napoli nel ’54, di Roma nel ’59 e di Firenze nel ’60, quando si presentò come uno dei relatori sul tema principale, rispettivamente sulle “ostecondriti”, sui “nuovi aspetti dei traumatismi dell’apparato locomotore in rapporto con tempi moderni”, sugli “indirizzi moderni nel trattamento della tbc osteoarticolare”. Per quest’ultimo argomento, la sua preparazione e la sua esperienza clinica non potevano temere confronti. Lui, peraltro, fu tra i primi a tornare ad aggredire chirurgicamente le localizzazioni ossee tubercolari, asportando quel “vallo necrobiotico” che impediva all’antibiotico streptomicina di penetrare col sangue all’interno del focolaio.
A proposito di atti chirurgici, si deve a Paltrinieri l’originalità di un metodo per il trattamento delle pseudoartrosi post-traumatiche dell’arto inferiore, a cui diede il nome di “osteotomia parafocale”. L’aveva escogitato quando si trovò di fronte a un paziente che presentava una gravissima deformità in varo di gamba, conseguente a una pseudoartrosi di tibia; pensò di correggerla con due osteotomie, sopra e sotto il focolaio, programmando un successivo trapianto osseo, che poi si rivelò inutile, perché dopo quattro mesi di gesso (e di carico) ebbe la gradita sorpresa di una consolidazione a tutti e tre i livelli. Impiegando con successo questa tecnica in altri casi, ne spiegava così i vantaggi: «Le osteotomie lineari, che sempre consolidano, agiscono a guisa di parafulmine, annullando e assorbendo le oscillazioni e le sollecitazioni dinamiche a livello della pseudoartrosi, che non mancano dentro gli apparecchi gessati. Il completo riposo della parte dà come risultato una riviviscenza dei poteri di riparazione del focolaio, oltre alla correzione del disassamento». Il progresso, a quei tempi, si raggiungeva anche così.
Pienamente consacrato al suo ruolo didattico, Paltrinieri riuscì in breve ad arruolare un buon numero di allievi, dando vita a una vera e propria “scuola pisana” di ortopedia. I nomi di Francesco Landi, Giuseppe Redini, Bruno Fratta, Giorgio Pietrabissa, Mario Cesari, cominciarono a diffondersi sui programmi scientifici dei vari convegni e sulle pagine di molte riviste scientifiche. Una di queste venne fondata dallo stesso Paltrinieri: aveva un titolo incoraggiante, “Avvenire Medico”, e raccoglieva la produzione specialistica della Clinica da lui diretta.
Con i suoi collaboratori aveva un rapporto affabile, che poteva anche sfociare nel confidenziale, senza però che mai venissero meno la stima e il rispetto reciproco. Era sempre ben disposto a chiedere la loro collaborazione per lavori scientifici e relazioni. Amava anche coinvolgerli nei suoi viaggi di lavoro all’estero, che puntualmente si trasformavano in opportunità turistiche, appassionato com’era di tutto ciò che l’arte e la natura offrivano di bello in ogni parte del mondo. A Parigi, a Londra, in Belgio, in Olanda, in Germania, Paltrinieri e il suo allievo-compagno di turno riuscivano a unire, con piena soddisfazione, l’utile e il dilettevole.
In fatto di viaggi all’estero, restò per lui memorabile quello compiuto nel 1958 nell’America del Sud. Era stato invitato a San Paolo del Brasile, per presenziare al congresso della Società di Ortopedia e Traumatologia dell’America Latina. Adempiuto al dovere scientifico, si ritrovò in una allegra compagnia che aveva organizzato un programma sociale del tutto singolare: vacanza di due settimane a pesca e caccia sul fiume Paranà, al confine con l’Amazzonia. Quella della caccia – come già accennato – era una vecchia passione di Paltrinieri, che spesso aveva condiviso con alcuni colleghi del Rizzoli, Oscar Scaglietti, Giusto Filippi e Renato Morganti tra gli altri; la domenica erano soliti imbracciare il fucile e inoltrarsi per campi e stagni della campagna emiliana, alla ricerca di beccaccini e di anatre. In quella avventura sul Paranà c’erano Scaglietti e Morganti (quest’ultimo, italo-brasiliano, fece da guida); il bottino di pesca e di caccia fu così abbondante, e i paesaggi così incantevoli, da lasciare in loro un ricordo indelebile.
Tra tutte le vicende positive vissute da Paltrinieri negli anni della permanenza a Pisa, quella che sicuramente gli procurò più gioia e serenità fu il legame con colei che, teneramente, andava a colmare il grande vuoto lasciato dalla moglie Gabriella, morta nel ’35. Si chiamava Lea, infermiera, ventotto anni più piccola di Mario. L’aveva conosciuta già nel ’41, quando lui dirigeva l’istituto del Cinquale mentre lei seguiva un gruppo di giovani donne malate di tubercolosi. Di bell’aspetto, alta e snella – così la descriveva – tanto attiva e generosa nel suo lavoro, quanto timida e riservata nei confronti dei medici. Originaria di Bedizzano, borgo di montagna sulle Alpi Apuane, dovette patire nel ’44 la perdita di un fratello di 16 anni a causa di un bombardamento, che a lei procurò una ferita da scheggia a una spalla. Nonostante questa sventura, si prodigò poi a curare partigiani e sbandati durante lo sfollamento nel suo paese, azione che le avrebbe poi procurato il riconoscimento di una croce al merito di guerra.
Persa di vista in quel periodo di sconvolgimenti, Paltrinieri se la ritrovò nelle sue prime occupazioni post-belliche sulla riviera della Versilia, come preziosa collaboratrice per medicature, apparecchi gessati e piccoli interventi; tanto che volentieri si faceva accompagnare da lei nelle sue puntate a Pisa. Fin quando poi venne assunta come ferrista nella neonata Clinica universitaria. La vicinanza e l’ammirazione vicendevole erano destinate a sfociare in un felice matrimonio.
L’ortopedia avrebbe condizionato anche un altro matrimonio in famiglia: quello della figlia Bianca Maria, andata in sposa a Marcello Mariotti, che di papà Mario era uno degli assistenti, poi primario nella divisione ospedaliera di Lucca. Non l’unico ruolo apicale in cui avrebbero trovato sistemazione gli allievi di Pisa; ci sarebbero stati anche quelli di La Spezia, di Carrara, di Viareggio, di Pontedera, di Grosseto.
Agli anni trascorsi in Toscana, Paltrinieri non avrebbe potuto chiedere di più e di meglio, prima che «il destino» tornasse a bussare, per richiamarlo a Bologna «ad essere uno dei successori di Vittorio Putti». Si concludeva così la tappa più lunga del suo cammino, nell’autunno del 1968. Appena in tempo, tuttavia, per un congedo in grande stile, sotto forma di presidenza di un congresso nazionale della SIOT. Era la 53esima edizione, ed era la prima volta che veniva ospitato a Pisa, città ormai alla ribalta del panorama ortopedico italiano.
Temi principali di relazione “La scoliosi” e “La cifosi”. Il primo venne spartito tra vari esponenti della scuola di Roma e di Firenze (Vincenzo Pietrogrande, Lamberto Perugia, Aldo Maiotti, Marcello Pizzetti; Pier Giorgio Marchetti, Alessandro Faldini, Alberto Ponte). Il secondo fu interamente dibattuto da Luigi Ranieri, giovane emergente della scuola pisana, che ebbe anche il merito di apportare contributi originali. Lui ne avrebbe ancora fatta di strada al seguito del suo maestro, insieme al quale intanto aveva dato alle stampe una interessante monografia sulle discopatie e le sciatiche vertebrali.
Il congresso riscosse un notevole successo, e per Paltrinieri rappresentò davvero un momento di esaltazione, con un finale che potremmo definire pirotecnico; venne infatti eletto presidente della Società per il successivo mandato di due anni!
Ritorno al Rizzoli, umiltà e prestigio
Nel 1967, al Rizzoli, aveva concluso per limiti d’età la sua carriera Raffaele Zanoli, ultimo direttore unico dell’istituto, dopo Codivilla, Putti e Delitala. C’era stato un po’ di trambusto per la successione sulla cattedra universitaria, visti i pareri discordanti sulla persona da designare. Oscar Scaglietti, dall’alto della autorità che gli derivava sia dal suo passato bolognese che dal suo presente universitario a Firenze, aveva temporaneamente messo a tacere ogni disputa, assumendo per sé anche l’incarico per un anno accademico di direttore della Clinica ortopedica del capoluogo emiliano. Un atto formale, più che altro. Si recava a San Miche in Bosco solo per fare lezione o tenere gli esami; affidava a un aiuto la gestione assistenziale del reparto.
Una legge non scritta – ma fortemente consolidata dal tempo – imponeva che il successore in cattedra fosse un “figlio” del Rizzoli, e non altri. Così era stato fino ad allora; così doveva continuare a essere. Il prof. Scaglietti ne avrebbe avuto tutto il diritto, ma non se la sentì di lasciare la sede fiorentina, ancor più dopo averla rinnovata e resa più prestigiosa; si adoperò, tuttavia, affinché a prendere in forma definitiva quel posto fosse proprio Mario Paltrinieri, suo amico fin dai tempi della giovinezza, per anni suo inseparabile collega, suo fedele compagno di caccia e di avventure. Arrivò così, dopo un anno di transizione, il tanto atteso voto unanime.
Il 1° novembre del 1968, Paltrinieri rientrava ufficialmente al Rizzoli in veste di direttore della Clinica ortopedica. Per la cerimonia di insediamento si colse l’occasione di una importante coincidenza – anch’essa segnata dal destino – perché si trattava della stessa data in cui, ventotto anni prima, era morto Vittorio Putti. L’accostamento commemorativo nobilitò l’evento e creò sicuramente una suggestione particolare, anche perché per la prima volta, nella sala dell’istituto bolognese in cui si riunirono i convenuti, veniva esposto il famoso quadro raffigurante il maestro scomparso, opera del pittore ungherese Philip de László (con definitiva collocazione nei locali della “Fondazione Putti”).
Molte cose erano cambiate al Rizzoli da quando Paltrinieri lo aveva lasciato per prendere la strada della Toscana. I posti letto, da 200, erano saliti a circa 800. Non più un unico grande reparto sotto un unico direttore (con la duplice investitura di primario ospedaliero e direttore di clinica universitaria), ma la coesistenza di quattro divisioni, più servizi vari, per effetto della riforma attuata già negli ultimi anni della gestione-Zanoli. A Paltrinieri venne affidata la Prima Divisione (di 120 letti) che fungeva anche da reparto di Clinica ortopedica. Facevano pure capo alla sua cattedra quattro scuole di specializzazione: Ortopedia e Traumatologia, Fisiochinesiterapia e Riabilitazione, Fisioterapia per tecnici, Disegno anatomo-chirurgico. Fu investito inoltre della direzione scientifica dell’istituto, che comportava, tra le altre cose, la direzione della rivista COM (La Chirurgia degli Organi di Movimento).
Portò con sé soltanto tre allievi cresciuti con lui a Pisa: il già citato Luigi Ranieri, che a Bologna avrebbe poi raggiunto la cattedra della III Clinica ortopedica; Gian Carlo Traina, che nel 1980 sarebbe diventato direttore della Clinica ortopedica di Ferrara, succedendo a Germano Mancini; Paolo Bellando Randone, cognome noto nell’ambiente ortopedico, perché papà Tommaso, ortopedico a Taranto, aveva donato alla SIOT una somma in denaro per l’istituzione di un premio annuale da assegnare in sede di congresso alla migliore opera monografica, premio rimasto in vita fino a pochi anni fa; lui, Paolo, dopo l’esperienza al Rizzoli, ha proseguito la sua carriera al Codivilla-Putti di Cortina da assistente ad aiuto, per poi chiuderla come aiuto del prof. Traina a Ferrara.
Paltrinieri ebbe il buon senso e la lungimiranza – secondo testimonianze di vari colleghi e allievi – di stimolare uno spirito di collaborazione tra lui e gli altri primari (Leonardo Gui, Francesco Ruggieri, Alessandro Dal Monte, Gaspare Perricone), tra medici “universitari” e “ospedalieri”, tra esponenti “bolognesi” e “pisani”. Sentiva, oltre alla dignità, la responsabilità di essere professore dell’ateneo bolognese e clinico del Rizzoli; e questo gli poneva davanti, come prioritario obiettivo, il bene e il buon nome dell’istituto. Lasciò pertanto a tutti, collaboratori diretti e non, completa libertà di sviluppare le proprie idee. Grazie al suo equilibrio, alla sua disponibilità e alla sua bonomia, instaurò un clima di famigliare accordo laddove c’erano state tensioni e lotte interne. Si guadagnò, così, l’attenzione e il rispetto di tutti.
Le qualità individuali certo non gli mancavano. Era considerato un clinico completo e un chirurgo elegante, preciso e delicato nel praticare dissezioni attorno a muscoli, vasi e nervi, in particolare nell’insidioso distretto della colonna vertebrale. Sempre ben disposto a mettere alla prova nuove tecniche e nuovi mezzi, si dedicò molto allo sviluppo degli interventi di sostituzione protesica, soprattutto dell’anca. Col suo collaboratore Claudio Trentani, sperimentò una protesi di rivestimento, costituita da una calotta metallica, inserita su una testa femorale rimodellata. Paltrinieri fu inoltre tra i primi in Europa a propagandare, sempre nelle protesi d’anca, l’uso della ceramica, partendo dal presupposto che l’impalcatura stessa dell’osso è fatta di materiale ceramico, e ispirandosi a quegli isolanti che resistono alle alte tensioni della corrente elettrica. Per questa innovazione aveva perfezionato i suoi studi presso la Clinica ortopedica di Vienna, instaurando proficui rapporti con Karl Chiari e Karl Sweymüller, due nomi che hanno fatto la storia in questo specifico settore dell’ortopedia.
Credeva molto nel lavoro in équipe, il prof. Paltrinieri, e per questo si impegnò a formare gruppi di studio per la ricerca e lo sviluppo di varie tematiche. Istituì laboratori per i biomateriali e la biocompatibilità, con la presenza di esperti in ingegneria; sostenne il progetto di studio statistico, catalogazione e diagnosi dei tumori, portato avanti da Mario Campanacci; incoraggiò Mario Gandolfi nell’impiego e diffusione delle protesi di ginocchio. L’inaugurazione di un nuovo padiglione, nel maggio del 1973, aveva anche lo scopo, per l’appunto, di mettere a disposizione nuovi locali per laboratori e per ambulatori dedicati, oltre a migliorare i servizi di assistenza.
Come docente e oratore, Paltrinieri riusciva facilmente ad attirare l’attenzione di allievi e colleghi, anche grazie a una sapiente dose di arguzia e di ironia. Organizzatore instancabile di convegni e tavole rotonde, tornò nuovamente alla ribalta nazionale presiedendo, nel 1972, un altro congresso SIOT. Si trattava dell’edizione n° 57, ebbe luogo nel Teatro Comunale al centro di Bologna, per la prima volta non ospitato al Rizzoli; i tempi erano cambiati, e soprattutto il numero dei soci, salito a 1500 circa, per cui i locali dell’ex monastero erano ormai insufficienti. Fu il primo congresso SIOT della durata di quattro giorni. Due i temi di relazione: “Displasia congenita dell’anca in età pediatrica”, argomento per il quale già Codivilla e ancor più Putti avevano divulgato i principi basati sulla precocità della diagnosi e conseguentemente del trattamento, e che venne dibattuto da esponenti di varie scuole (per il Rizzoli, Mario Campanacci e Alessandro Dal Monte); l’altro tema era “l’artropatia emofilica”.
Più breve ma più intensa questa sua seconda esperienza in cattedra. Si congedò dopo sette anni, nel 1975, al compimento del suo settantesimo. Mantenne ancora per diverso tempo, comunque, la direzione della “COM”, ed anzi continuò con più entusiasmo di prima a sollecitare i medici del Rizzoli a pubblicare articoli che avessero un fondamento scientifico e una utilità pratica. A tal proposito, interveniva spesso sulle pagine della rivista – con l’equilibrio che lo contraddistingueva – attraverso una rubrica epistolare, manifestando personali considerazioni su articoli redatti da altri. Avrebbe poi avuto modo di ringraziare il concreto aiuto dei vari redattori: Leonardo Gui, Mario Campanacci, Luigi Ranieri, Mario Gandolfi, Romolo Savini.
Concluso anche questo incarico editoriale nel 1982 (ceduto al suo allievo Luigi Ranieri), Paltrinieri decise di ritirarsi a vita privata, dedicandosi spassionatamente ai suoi hobby, tra questi la lettura, l’arte, la musica, la vita agreste che in lui risvegliava l’amore infantile per le piante e gli animali. Fu in qualche modo costretto a tornare in scena per il suo 90° compleanno, quando al Rizzoli venne organizzata una cerimonia in suo onore, celebrato dai tanti allievi di Pisa e di Bologna.
Morì a 93 anni. L’ultimo allievo di Vittorio Putti a ereditarne la cattedra del Rizzoli lasciava un testamento pieno di insegnamenti e di buoni esempi. Dalle tante esortazioni ai giovani che spesso sgorgavano dalla sua penna, ne abbiamo scelta una, semplice nel contenuto, ma espressione di ampia cultura e profonda umanità; proprio com’era la sua indole. «Il medico deve non solo saper visitare, ma ascoltare il paziente e ricevere il messaggio che a lui giunga non solo dalla malattia ma dall’anima».
Storia
Ricevuto e accettato: 20 settembre 2024